Archivio | novembre, 2011

So happy together

27 Nov

L’amore è come il cibo: ha una data di scadenza. Se esistono coppie che durano anni è perchè è come quando una persona mangia ananas scaduti pur di non sprecarli. Poi vomita, ma questo non importa. (Dal mio romanzo “Masters-Fistfucking Per Violino Solo”)

“Enter The Void” di Gaspar Noé

26 Nov

Regista spesso al centro di spiazzamenti da parte del pubblico, Gaspar Noé non si demoralizza nel suo continuo ed impervio viaggio di ricerca del corpo, dell’anima e delle emozioni ed “Enter The Void” riesce ad esserne una sorta di testamento cinematografico. È, finalmente, un cinema completamente libero quello che il regista francese ci mostra in queste (quasi) tre ore di onirico viaggio. Un viaggio di suoni, colori, suggestioni ed empatia pura e cruda.

Un film-fiume dove Noé diluisce le sue più cupe ossessioni e le sue più feroci inquietudini, mettendo in luce dei personaggi-involucri che vogliono solo cercare un’identità, dopo terribili sconvolgimenti nel loro passato. Il catalizzatore di tutto questo male è Linda, la sorella del protagonista, bruttina, ma dotata di un invidiabile sex-appeal, destinata a scendere nella più cruda desolazione. È, infatti, possibile trovare un futuro in un mondo depravato e triste, che si ciba di sesso, droga ed anime? La capitale giapponese che Gaspar Noè dipinge di nuances al neon e battiti epilettici è l’ambiente più straniante (e straziante) sia mai stato impresso su schermo. È l’opprimente gioia di vivere apparente, che nasconde serpenti velenosissimi, avvicinandosi, in più punti ai mondi distruttivi di Lynch.


Che cos’è, infatti, “Enter The Void”, se non l’”Inland Empire” di Noé? Un film lentissimo e fluido, non onirico, perché è al di là persino del sogno. Un continuo susseguirsi lento ma violento di pianosequenza, che rimane impresso, soprattutto negli ultimi – straordinari- venti minuti, dove si scatena l’inferno dantesco di Noè: un continuo entrare ed uscire da corpi, strisciare su vetri e palazzi e giocare con gli sguardi, le luci e le ombre.

Il cinema di Noè non ha nulla di narrativo: è un cinema che racconta poco, pochissimo, ma che infligge ferite profondissime, da rimarginare e riaprire, sempre, durante la visione. E non è un caso, quindi, che sia un film che racconti poco, ma che non sia prolisso, nonostante l’eterna durata, perché il concetto passa solo quando si ferisce e si ipnotizza lo spettatore. Il mondo desolato e conturbante di Noè emerge solo quando non viene sbattuto in faccia a chi vede, ma quando emerge attraverso il dolore avvertito anche dagli oggetti: le lampade intermittenti ne sono la metafora incarnata. Ed è ancora più sporca l’intenzione, riuscendo ad essere velata ed elegantissima anche quando la telecamera riprende un amplesso sessuale all’interno dei due corpi in effusione.

“Enter The Void” è l’incantesimo ipnotizzatore fatto di fluttuanti movimenti di macchina che irrompono in cose e persone, che raggiungono alcune vette sublimi e indimenticabili (la cinepresa che entra nel foro da proiettile sul corpo di Thomas ed esce dall’ orecchio di Linda addormentata, il continuo entrare e uscire dai lavandini, la bellissima scena di Oscar e Linda sull’ottovolante che si va a schiantare come l’auto con i loro genitori), ma che non corrono mai il rischio dell’autocompiacimento.

Il cinema di Noé un cinema di carne, sangue, ossa. Un cinema sul corpo che violenta i suoi attori e lo spettatore, che lo ferisce e lo ricopre di carezze. Questo è il cinema libero, finalmente un cinema libero e divoratore, che vuole gridare senza scatenare compassione e che non vuole assolutamente farsi dimenticare Riuscendoci.

I film della settimana

26 Nov

Eighteen

Corea Del Sud, 2009. Di Jang Kun-Jae. Genere: Drammatico.

Verosimile nel suo mettere in scena un dramma morboso, eppure cristallino, esprimendo in modo sconvolgente il trauma dell’adolescenza e l’impossibilità di esprimersi in un mondo massacrante. Crudo, psicologicamente violento, eppure anche dolcissimo, è un saggio splendido di come fare cinema senza un budget, avvicinandosi allo stile dogma95 e al cinema dei Dardenne, ma con una propria identità. Imperdibile.

Freaks
USA, 1932. Di Tod Browning. Genere: Drammatico/Grottesco.

Classico su cui non bisognerebbe aggiungere parole. Universo squallido e iperbolico di un cinema fuori dal tempo, meravigliosamente messo in scena da un talento visivo invidiabile che concretizza i suoi personaggi in un taglio profondamente teatrale, quasi tetro e li umanizza con convinzione (le sorelle siamesi nella splendida scena in cui una delle due amoreggia con l’uomo che ama, e l’altra sente la medesima passione) e con una psicologia tutt’altro che banale. Browning sputa su tutti, senza finti moralismi, senza lacrime, ma creando una perversa empatia tra spettatore e personaggi, filmando con distacco ed esuberanza.

Taxidermia

Ungheria, 2006. Di Gyorgi Palfi. Genere: Grottesco.

Parabola di tre generazioni di uomini, ossessionati da tre cose che li porteranno ad un’evoluzione di corpo e spirito: il sesso, il cibo, la morte. Un film complesso e bizzarro che regge il gioco grazie alla visionarietà sorprendente di uno dei massimi autori del cinema ungherese contemporaneo. Un film senza genere, destinato a sconvolgere e far riflettere. Scena splendida: Uno schizzo di liquido seminale raggiunge il cielo e si tramuta in costellazione.

retrospettiva. kim ki-duk, il mio dio del cinema.

26 Nov
SPECIALE KIM KI-DUK
(Scritto dal sottoscritto per Officina Immagini Magazine)
Kim Ki-Duk, nato il 20 dicembre 1960, oltre che essere il mio regista preferito in assoluto, è considerato all’unanimità  uno dei più interessanti e talentuosi registi contemporanei, asiatici e non. In Occidente, il botto l’ha fatto con un’opera assolutamente imprescindibile come Primavera, Estate, Autunno, Inverno…E Ancora Primavera” (2003), grandissimo successo di pubblico e critica, nonostante la non-facilità di un’essenza poco narrativa e molto artistica. Kim Ki-Duk è uno dei pochi in grado di creare quadri figurativi dal nulla assoluto e di riempirli di senso (di altri registi capaci di farlo, in questo momento, mi viene in mente solo Tsai Ming-Liang). “Primavera” è un film che sopravvive nell’immagine ed è un continuo, inebriante ciclo vitale.
Le stagioni scorrono, come la vita, e il film le racconta, gettandosi a capofitto in un impressionante abisso di profondità.
Ma prima cosa c’era? C’era il cammino artistico di un uomo che, per sopravvivere, faceva il pittore di strada a Parigi e che, in vita sua, ha visto pochissimi film, quasi tutti blockbuster americani. Ed è impensabile che da un occhio apparentemente inesperto, si possa debuttare con un capolavoro comeCrocodile” (1996), estraniante viaggio nelle solitudini generazionali e sessuali. Una famiglia tutta maschile allo sfascio che vive ai bordi di un fiume, una giovane suicida e un amore che si dipinge sull’orlo del grottesco (emblematica la scena in cui il nonno muore nella macchinetta del caffè, o ancora la sodomia con il cetriolo) e il poetico (le inquadrature subacque, le barchette di carta che fluttuano, traspotando il messaggio di disagio e malinconia), trascinandosi in un finale assolutamente spiazzante e quasi teatrale nel suo paradosso puramente romantico. La prima fase del cinema di Kim Ki-Duk è sporca, ma in grado di colpire alla perfezione con immagini sensazionali e racconti che traducono in narrativa i mali e le felicità dell’essere umano.
Nel semiautobiografico Wild Animals” (1997), Kim Ki-Duk estremizza le proprie esperienze di immigrato Coreano a Parigi, cercando di tratteggiare il disagio di essere soli in una terra straniera. A volte lo fa con divertimento, toccando vertici da commedia (la scena in cui il protagonista non riesce a mangiare con le posate e i Francesi lo prendono in giro), altre volte scatenando quasi desolazione. Il film è il più sottovalutato in assoluto della carriera del maestro sudcoreano, eppure andrebbe rivalutato: nonostante sia minore di “Crocodile”, è un film di rara potenza e bellezza, dove cominciano ad emergere le basi del nuovo cinema Kimkidukkiano. Emergono i grandi personaggi femminili e quell’appassionato tentativo di estremizzare l’amore e le delusioni nelle relazioni umane (Assolutamente degna di nota la scena in cui la bella protagonista francese, stanca di essere picchiata dal fidanzato con il pesce surgelato, lo accoltella con lo stesso [!!!]). Tocca vertici grotteschi, quasi di cattivo gusto, eppure rielaborati con una poesia unica. “Wild Animals” è un film sull’amore universale (interessanti anche le riflessioni del conflitto tra Corea Del Nord e Corea Del Sud), ma soprattutto sull’arte e sulla sua funzione salvifica, ma che può avere anche funzione di approccio sessuale (la protagonista, totalmente nuda, chiede all’uomo di essere pitturata completamente di bianco). Nulla è totalmente buono o totalmente cattivo nel cinema di Kim Ki-Duk e questo emerge soprattutto nel finale, dove l’acqua (elemento chiave del suo cinema) sommerge ogni cosa.
Ma i suoi splendidi ritratti femminili emergono nel successivo capolavoro, lo splendido Birdcage Inn”(1998), dove Kim Ki-Duk ricomincia nel suo meraviglioso tentativo di sputare su tutto e su tutti, ma con una speranza in più, che emerge in un finale ottimista, poetico ed estremamente riuscito. È un racconto di donne sole, sia fortunate ma insicure, come la mascolina e scontrosaHye-Mi, segretamente lesbica, che derelitte di un mondo in piena decadenza come la bellissima ed eterea Jin-A, costretta a prostituirsi. È un racconto di formazione, che spingerà le due protagoniste adolescenti alla riscoperta di loro stesse, in un mondo dove l’uomo è animale (e questo emergerà nel meraviglioso “Address Unknown”, dove gli esseri umani vengono costantemente paragonati ai cani) e dove viene costantemente deriso (paradossale la scena in cui sia il padre che il fratello di Hye-Mi contraggono la sifilide, dopo aver fatto sesso con Jin-a). Ma la spiegazione di tutto il film resta in un’immagine di significativa bellezza: Il quadro “Le Sorelle” di Egon Schiele, appeso sul bagnasciuga e poi paragonato alla foto delle due ragazze, prima nemiche e poi sorelle, e forse anche amanti (bellissima la scena in cui Hye-Mi si sforza di copiare ogni gesto dell’amata/odiata Jin-A).
Il percorso Kimkidukkiano troverà, però, la massima forza in un’opera devastante come L’Isola” (2000), il suo capolavoro, dopo “Ferro 3- La Casa Vuota”. Un racconto di relazioni impossibili tra donne e uomini e di incomunicabilità (come spesso avviene nei suoi film, i personaggi principali o non parlano o parlano poco, mentre i personaggi secondari sfiorano spesso il logorroico) , che esplode in un delirio ai limiti del possibile, ma sempre sul versante poetico/romantico/artistico. L’uomo diventa un animale, che sia cane o pesce, è destinato ad essere tale. Per sentirsi uomo, l’essere umano cerca di lottare sul più debole: per questo il film diventa una parabola quasi insostenibile sulla violenza animale. I pesci (simbolo palesemente fallico) vengono macellati e ributtati vivi in mare, o stimolati con cariche elettriche, come stimolante sessuale. Le rane (simbolo legato all’organo genitale femminile) vengono uccise, spellate e date da mangiare agli uccelli (simbolo fallico), che vengono annegati vivi quando il rapporto s’incrina. Il cane (l’essere umano) viene sbeffeggiato e picchiato, mentre l’essere umano debole (la prostituta chiaccherona) è destinato a perire. È il suo film più sconvolgente e scomposto, cattivo, nonostante il ritmo lento, dove l’uomo e la donna non si comprendono e arrivano a disumanizzarsi per capirsi meglio (meravigliosa la scena in cui la protagonista pesca l’amato, dopo che l’ha nascosto dai poliziotti e poi, mentre lui agonizza lo sottomette e lo possiede)  o lasciano parlare gli oggetti (i pennelli che si strusciano l’uno sull’altro e che dimostrano di amarsi, molto più facilmente che gli umani; l’altalena/giocattolo, come gesto d’amore; lo sportello che funge da water nelle case galleggianti, come specchio tra il reale e la fantasia). E si può non parlare del finale? Il finale che ritengo essere il più bello in assoluto della storia del cinema? Che in un’immagine puramente simbolica distrugge tutto il castello di carte meravigliosamente concepito in precedenza e racchiude l’intero film? Opera d’arte.
Real Fiction”(2000)  è, invece, un giochetto puramente digitale. Bellissima opera sulla frammentazione dell’io e sul disagio di essere artisti cinematografici incompresi, nonostante non sia tra i migliori di Kim Ki-Duk necessita sicuramente attenzione, soprattutto per quanto riguarda l’indimenticabile scena della ragazza morta a terra, accanto ad una telecamera rotta. Il sangue collega le due creature, ma non è scontato che sia della ragazza. La ragazza potrebbe anche fingere, e il sangue è della telecamera. Il cinema che muore, che è protagonista assoluto e anima fragile.
Il discorso dell’incomunicabilità tra i sessi, però, torna a riemergere nel capitolo successivo, altrettanto imprescindibile: Bad Guy” (2001). Film più complesso di quanto si pensi, che costruisce una storia d’amore impossibile e illecita tra due confini temporali diversi. Kim Ki-Duk confonde le acque: chi è la vittima? La ragazza costretta a prostituirsi o l’uomo che si becca il suo sputo dritto in faccia? E chi è il carnefice?
Kim Ki-Duk evita ogni spiegazione hollywoodiana, per trascinarti nel suo sogno puramente divino, immergendosi ancora nell’arte (Il catalogo di Schiele, regalato come pegno d’amore. Il quadroL’Abbraccio”, che è l’incarnazione di un desiderio d’amore di una protagonista incredibilmente sola ed insicura) e nei disagi esistenziali dei suoi protagonisti. Meravigliosa la caratterizzazione della protagonista femminile che, come in tutti film di Kim Ki-Duk, è l’unione di più opposti: la dolcezza e la rabbia, la purezza e la sporcizia. E come spesso accade, è il personaggio più forte e combattivo dell’intera opera, pur nell’insicurezza. Ed è splendida l’immagine che sembra ritrarli in un momento di intimità meravigliosa, il preambolo di un bacio, ma che si conclude con lei che gli vomita sulla spalla.
In Indirizzo Sconosciuto” (2001), la crudezza torna a farsi sentire quasi immediata. Emerge la rabbia di un popolo (i Coreani), succubi di altri (gli Americani). Ambientato in un piccolo paesino di provincia, negli anni ’70, è la storia disperata di tre adolescenti coreani, tra i quali emerge sicuramente Eun-Ju, il classico personaggio femminile di Kim Ki-Duk. Bella e ribelle, Eun-Ju ha comunque un grosso punto in sospeso: è orba, ed è tutta colpa di un gioco infantile (guarda caso che concerne anche una pistola, elemento chiave di molti film di Kim Ki-Duk, tra cui l’ultimo “Arirang” “Time”) e questo le dà insicurezza, nonostante sia al centro delle attenzioni di un suo coetaneo. Il loro rapporto è impossibile: il ragazzo, per conquistarla, le dipinge un ritratto, dove non tiene i capelli davanti agli occhi, come invece fa sempre. Sarà nel momento in cui tutti e tre, per motivi vari, verranno riuniti in un fotogramma che li ritrae con un occhio coperto, che emergerà la sadica ironia dell’autore coreano, che qui dirige il suo film più cattivo e disperato. Sporco sin dalla fotografia sgranata, è un ritratto sconcertante degli esseri umani: sono tutti cani, dal primo all’ultimo. Pervertiti senza speranza (John), o assassini di animali (Il proprietario del canile, che poi verrà ucciso proprio come un cane: appeso e bastonato).
Ma Kim Ki-Duk non ci va leggero neanche con un più pacato e raffinato, ma sicuramente spiazzanteThe Cost Guard” (2002), disturbante riflessione del conflitto Corea del Nord/Corea del Sud, dove l’odio può portare anche all’uccisione di innocenti (due fidanzatini che amoreggiano sulla spiaggia) e dove la disperazione raggiunge momenti di pathos inarrivabili (la protagonista femminile, inerme davanti al corpo del fidanzato morto, avvicina la mano di lui alla sua bocca, ma non appena il campo si allarga, si vede che il braccio – in verità- è mozzato).
E non è leggero neanche un capolavoro come La Samaritana” (2004), disturbante ritratto generazionale. Il primo è l’ultimo film di Kim Ki-Duk a concentrarsi sul mondo dell’adolescenza, ma non solo. Due ragazzine, belle, ricche e spigliate decidono, inaspettatamente, di prostituirsi. La motivazione sembra essere “Trovare i soldi per un viaggio in Europa”, ma è solo una scusa, e lo si capisce dal fatto che viene accennato solo una volta. Può darsi che vogliano fare una cazzata così grande da non potersi salvare, oppure di amarsi (ambiguo il rapporto lesbico tra le due, così com’è ambiguo il rapporto tra padre e protagonista, più da amanti che da parenti)  in libertà e con ingenuità.
Una delle due muore. E l’altra, disperata, ne prende le sembianze. In un gioco di specchi, di cui nessuno sembra accorgersene (i clienti). Un incantesimo che lascia presagire un inquietante presupposto: e se la ragazza morta (senza casa, né genitori, oltretutto) fosse solo un’allucinazione della protagonista? Protagonista che vorrebbe eliminare la sua purezza per essere donna (dorme ancora con l’orsetto, ma lo tiene tra le gambe; dorme completamente nuda; da ragazza pudica si trasforma improvvisamente in fanciulla vestita in modo disinibito). “La Samaritana” è il “Lolita” del Ventunesimo Secolo, un capolavoro di rara intensità che Kim Ki-Duk poteva non riuscire a superare.
E invece arrivò Ferro 3- La Casa Vuota” (2004) e fu amore. Storia d’amore tra due derelitti (lui senza casa, lei senza amore) , che cercano disperatamente una vita normale e felice, continuando ad entrare nelle case altrui, ma senza mai rubare nulla e autofotografandosi sotto i ritratti di famiglia. Arrivano, vivono, scappano. E ricominciano il ciclo. Tutto sarebbe pefetto se non ci fosse il marito burbero, armato di Ferro 3 (strumento legato alla borghesia e alla noia coniugale, ma ancora d’allusione fallica) , che partecipa anche nella ricongiunzione dei due amanti, in quella che ritengo la scena di bacio più bella della storia del cinema. Si crea un grottesco corpo a tre teste, che dà idea sia di pace che senso di soffocamento. E alla fine, vita e morte, amore e odio si confondono, dietro gli eterei sorrisi di lei e le movenze ectoplasmatiche di lui. Il marito torna al suo lavoro borghese, e tutto si sistema. O quasi. Una tragicommedia dove sono i silenzi a dominare, dove tutto è volutamente è ripetitivo (la canzone della colonna sonora, i volantini, i gesti) , ma dove tutto si srotola nel cammino d’espiazione finale. Ed è capolavoro. Tra i migliori film mai realizzati.
Kim Ki-Duk ha un potenziale d’immagine veramente impressionante, che si riconferma nella sua famigerata trilogia L’Arco” (2005)/ “Time”(2006)/ “Soffio” (2007), film incredibili e splendidi, ma incomprensibilmente stroncati dalla critica. Sono tre passi essenziali del cinema di Kim Ki-Duk e ne comprimono la poetica, raggiungendo momenti di bellezza inarrivabili (la scena de “L’Arco”, dove la bellissima protagonista diciassettenne di “La Samaritana” si addormenta in un abito da sposa, mentre una freccia viene sparata dritta tra le sue gambe), o sperimentando nuovi mezzi per sottolineare l’inquietudine (dopo i silenzi insistiti di “Ferro 3”, in “Time” prevale il dialogo, spesso inutile, a soffocare il terrore del silenzio assoluto), raggiungendo vette Pirandelliane (la protagonista di “Time” che piange indossando una maschera di sé stessa, sorridente e prima dell’operazione chirurgica), o con l’autocitazione rielaborata (le stagioni come ciclo vitale, in “Soffio”.)
Delle sceneggiature scritte per altri, si salva solo la prova di Jang Hoon, “Rough Cut” (2008), un film di cinema sul cinema, che si rivela incredibilmente affascinante e goduriamente “scomposto”, raggiungendo una vetta di bellezza nella scena della lotta nel fango. Mentre è sicuramente poco riuscito, il brutto Beautiful”(2008) dell’anonimo Jae-Hong Jeon, che rovina una buona sceneggiatura per realizzare un film innocuo dal punto di vista visivo e che difetta di una recitazione decisamente poco curata.
L’unico vero passo falso del regista coreano resta Dream” (2008), oggetto misterioso, frutto di una coproduzione nippocoreana. Un film bello, ma che non raggiunge quasi mai le vette tipiche del suo cinema, preferendo soffermarsi su una poesia quasi forzata e molto meno affascinante. Le premesse per il capolavoro ci sono e ,anche l’idea di far recitare l’attrice protagonista in coreano e l’attore in giapponese, per sottolineare l’incomunicabilità tra i due sessi, è geniale; ma ne esce un film che poco aggiunge alla sua filmografia. Il finale, splendido e puramente filosofico, eleva il film ad un gradino più alto, ma “Dream” resta “solo” un buon film.
E poi, Arirang” (2011), il suo attesissimo ritorno. Un documentario sperimentale che diventa, con grazia, un suicidio artistico. La possibilità di scavarsi dentro e di riflettere su ciò che si è compiuto. Un film girato in digitale e senza soldi, nato da una depressione, che vede nella creazione di una pistola (sul cui manico viene marchiato il nome del regista), l’occasione per dimenticare e sparare dritto sul passato, per reinventarsi e riscoprirsi. Kim Ki-Duk si autocelebra e si annulla, mostrandosi non come una star, ma come un quasi-barbone che vive in uno scantinato, circondato da spazzatura e da locandine dei suoi film. Un disagio mai così sottolineato con completezza e precisione, e che è stato premiato a Cannes (nonostante i diverbi tra il regista e il Festival) con il premio “Un Certain Régard”). Ed è ancora capolavoro. Il nuovo capolavoro di uno dei registi più visionari e geniali.
ARIRANG
Uscito dalla depressione, Kim Ki-Duk decide di raccontare cos’ha fatto in questi tre anni d’assenza. Si filma con una telecamera, si confessa e cerca di autoesorcizzarsi. Intimismo delirante che sfreccia nel vento, la confessione del dio cinemaografico si divide tra l’assoluta calma e pazienza, come una confessione quasi religiosa, e la distruzione, il delirio e l’isteria. Kim Ki-Duk, dopo tre anni, parla di sé stesso in un film su sé stesso, ma soprattutto sul suo cinema. Questo non è un film per piacere, non è un film per il pubblico. “Arirang” giustamente, lo snobba. è uno sfogo, una confessione per autoesorcizzarsi, girata con una videocamera digitale, senza soldi né attori. Kim Ki-Duk è allo sfascio, solo, ma finalmente libero di dire quello che vuole.

Dalla sua idea sulla morte, agli insulti rivolti a chi gli ha voltato le spalle. Kim Ki-duk si sfoga e, ovviamente, lo fa a suo modo: cantando l’arirang, canto tradizionale coreano, mentre la telecamera riprende le locandine, i premi vinti e i copioni. Kim Ki-Duk si sdoppia (ricordiamo che il doppio, la scomposizione, è presente quasi sempre in ogni suo film), a specchio, e diventa quasi un caleidoscopio: lui parla a sé stesso, l’ombra parla a lui , ma al contempo un quarto Kim Ki-Duk guarda divertito il girato ai limiti della disperazione.

Documentario o montatura? Kim Ki-Duk non si sforza di nascondere le cose: “Può darsi che prima stessi recitando, che non sono arrivato davvero a piangere.” Ma poi, la caduta verso gli inferi. Kim Ki-Duk urla, disperato, e si costruisce una pistola, pronto a mietere vittime. Le vittime sono i set dove ha girato i suoi film. Li uccide tutti, a sangue freddo. La strada di “Soffio”, il vicolo dei love hotel di “La Samaritana”, freddati completamente. E poi, il suicidio artistico. Ancora l’arirang. Il ciclo continuo della vita ancora una volta incarnato alla perfezione: Non sono più le stagioni le componenti del ciclo vitale, ma le emozioni. La ciclicità è alla base del cinema di Kim ed emerge anche nei movimenti quotidiani sempre ripetuti (il caffè, ininterrottamente preparato, lui che dà da mangiare al gatto….). Quando sei solo, la vita è pura e mera alienazione. Lo struggente ritratto di uno dei più grandi artisti del ventunesimo secolo, il cui obiettivo era semplicemente: “Realizzare dei film ingenui, innocenti, imperfetti.”

Il devastante e fottutissimo capolavoro di quest’anno.
PS: Ho pianto.

Guardare un suo film vi cambierà profondamente.
“Difficile dire se la vita sia la realtà o un lungo, eterno, sogno” (Ferro 3)

elevate.

25 Nov

Chiudete gli occhi.
Viaggiate.
Trance like.

25 Nov

Sotto la neve, sporca di cenere
il tuo abbraccio genera claustrofobia.

I dischi della settimana.

25 Nov

Nat Baldwin  – People Changes

Dirty Projectors– Bitte Orca

Neon Indian– Era Extrana

E nello stereo da tipo tre mesi…

Bjork– Biophilia

L’ennesimo capolavoro della musa.

Diventa verde.

25 Nov

Il tuo cuore mi era stato puntato alla tempia. Poteva esplodere da un momento all’altro, l’oscuro petardo che portava prima allo scoppio di un fuoco d’artificio, e poi al braccio rotto. (Da il mio racconto “I Sogni Sono Proiettili”)

Dal mio racconto “I Sogni Sono Proiettili”:

Qualcuno mi spieghi questa mia straordinaria voglia di estraniarmi dai vostri avvenimenti per guardarmi dentro e scoprire che sono più complesso di quanto pensavo. Ci sono attimi in cui le vostre storie sembra debbano appartenere a voi e a nessun altro. E la mia testa rimbomba altrove, tra una nuvola e l’altra. E ti ricordi, Vasumitra? Di quando ci scambiavamo i cuori nei sottopassaggi e in riva al lago, con i sassi che ci facevano male ai piedi nudi? Con l’erba alta che ci pizzicava le cosce e i desideri sussurrati tra i fiori che sbocciano.

E di quando abbiamo fatto la stronzata di scappare insieme e ci hanno beccati alla dogana, con il tuo sorriso che ingannava anche il cielo? E mi gridavi che volevi andartene, che per noi non c’erano limiti, e ci siamo ritrovati a inghiottire saliva nei sottopassaggi. E le sinfonie di passi che trasalgono altrove, come quei canti liturgici del cinquecento.

E ti ricordi che in quarta liceo già lavoravi per pagarti l’accademia? Che i tuoi genitori ti manganellavano per la tua scelta di studiare arte. Con la più grande perizia hai mandato a fanculo il mondo, correndo da me con il cuore gocciolante in mano, a gridarmi che avevi passato l’esame di ammissione e che potevi diventare pittrice. E se anche dipingevi solo quadri altrui o dipinti monocromatici eri felice, perché in tutto quel nero vedevi le mie pupille. Io ci vedevo solo nero, ma ero felice. E ogni volta che piangevi tagliavi le tele, cosìcchè anche le tue creazioni potessero piangere. Che bei tempi, quando le tue vene sussultavano ogni volta che la lingua correva sul palato. E io volevo baciarti gli occhi, perchè splendevano, e dovevo frenarmi perchè hai la fobia del collirio.

Di quando mi chiedevi se il tuo ciclo ti sporcava la gonna o l’anima, che eri preoccupata che tutti notassero che eri umana, di quando temevi che la città ti crollasse sulla fronte o di quando non avevi i soldi per una bibita e te l’ho offerta controvoglia. Mi hai detto che sono tirchio, ma in verità, è perché stavi andando a casa, non per la bibita. Ogni volta che ci lasciavamo temevo di non rivederti. E poi sono arrivati i viaggi, dove ci perdevamo di vista anche quando li facevamo insieme. A cavalcare le onde di Venezia con i traghetti, perché non potevamo permetterci le gondole. A circumnavigare i tuoi occhi ad Amsterdam, tra una boccata d’aria pulita e una di fumo. I tuoi capelli che volavano sempre intorno al tuo viso. E io che cercavo solo un posto dove agganciare la mia ancora, mi ritrovavo sempre a Milano sotto quel bicchiere che sprofonda sulle nostre teste e che circonda la città. Quel bicchiere chiamato cielo. Forse l’avevo trovato.

A Madrid, a Puerta Del Sol, dove ci siamo fermati a mangiare churros e cioccolata calda. Tu con i tuoi piedi scalzi in infradito di plastica con il laccio rotto, non rifiutavi il ribollire sacro della cioccolata con la calura estiva. Dicevi che faceva caldo e che il tamburellare lisergico dei danzatori di strada di distraeva dai tuoi salti cardiaci. E mi chiedevi se con quel caldo, in qualche altra parte del mondo nevicasse. Ti ho risposto “Forse in Antartide”. Ma tu hai abbassato lo sguardo dicendo che non era possibile.

E poi quando mangiavamo ti tartassavo con le mie ansie igieniche, togliendoti un libro o una rivista di mano dicendoti che mi disgustava. Di quando mi raccontavi che mi credevi immortale e che quando facevamo l’amore era un po’ come combattere una guerra tra le lenzuola, con la notte che calava come un drappo scuro e inaspriva di ombre cinesi le nostre pareti, e le ammiravi danzare sontuose ed eleganti.  Ascoltavamo insieme canzoni straniere alle quattro di notte e tu ne storpiavi le parole. Avevano un potenziale lacrimogeno, ma sotto le tue ansie divertite, erano sketch comici.

Poi dovevi studiare, che c’era un esame a divorarti le vene perché non ti bastavano le canne. E dovevi lavorare. E mi preparavi cocktail da dietro il bancone come se fossi un tuo cliente. Ti chiedevo i più strani per innervosirti e mi minacciavi sorridendo che non avevamo preservativi e che il sole stava per esplodere e saremmo morti tutti.

Eppure sono morto solo io.

25 Nov

Scriverti sulla fronte “Torno Subito”, e non tornare mai.

I tuoi occhi che sono saracinesche abbassate.

Benvenuti nei miei inferi allegri e barocchi

25 Nov

Non pensavo a nulla, ma il suo danzare impacciato amoreggiava con i miei più profondi dispiaceri, tramutati improvvisamente in incantesimi possibili anche a coloro che ragionano solo con la scienza. Sentivo qualcosa che mai avrei provato in futuro e che avrei scambiato solo per una fiaba, come “Jack E Il Fagiolo Magico” o “Cenerentola”. Amore. Sentivo il sensibile viaggiare pulsante del sangue nelle sue arterie. Sentivo di essere lui.

E tutto si annullava. I ricordi. Le emozioni. Erano solo fotografie da strappare e da gettare come briciole di pane, per ritrovare solo successivamente il sentiero di casa. Eravamo tutti Hansel o Gretel, o la strega cattiva. Aspettavamo che qualcuno si lasciasse tentare dal marzapane del proprio cuore per farlo a pezzi. L’amore è macabro e ripugnante, quanto disperatamente irresistibile. Appiccavo incendi nella foresta della strega, pur di goderne della dolcezza, con i suoi baci che mi cadevano addossso come rivoli di sangue. Eppure, insieme all’ardore di una purezza infinita, io sentivo anche una rabbia inconscia, non omicida, ma pura, che sembra assente ma c’è ed è pronta a morderti quando volti la testa per andare ad aprire a qualcun altro.

Andarsi a nascondere in una grotta è impossibile. Tutte le ombre di quelle fronde si proiettano sempre su di essa e le lanterne accese di quella casa in fiamme diventano falene suicide. Accade sempre, ogni volta che ci si innamora, ogni volta che si crede di essere felici. La felicità spetta a chi non ha emozioni, quindi assolutamente a nessuno. Soffrire è umano. Non c’è redenzione.

I baci mi scivolavano ora in bocca, come grandine durante un cielo in tempesta, d’estate. Agosto e la furia che si trascina dietro. Gli squarci nel cielo e le nuvole autolesioniste che si tingono di nero. Ogni tocco, ogni battito, ogni barlume diventavano orgasmi inutili e vuoti, eppure in grado di distruggere una città intera. Un mondo. Far saltare in aria questo schifo di pianeta e tutte le sue creature. Con le costellazioni come uniche osservatrici dell’universo.

Solo in quei momenti ti accorgi come l’amore, cosa viscida, certo, possa essere tremendamente vincente. Quando fai scattare l’attimo, tutto esplode e ti senti immortale, terribilmente invincibile.

È un momento che dura poco, ma che se vissuto intensamente può portare alla serenità. Vulcani impazziti in eruzione. Poi cresci e capisci che, in amore, non vince chi fugge, ma chi scopa.

Ma che bello rituffarsi in certi abissi oscuri, lasciarsi affascinare da meduse dal colore del carbone e coralli morenti, ma speranzosi. Che bello sapere di essere finalmente vivi, e di avere un senso.

Che bello sognare e dire “Io esisto, cazzo, io sono qui”, mandando a fare in culo le disillusioni che vengono usate per vendetta.

[Dal mio romanzo “Masters- Fistfucking Per Violino Solo”]