L’amore è come il cibo: ha una data di scadenza. Se esistono coppie che durano anni è perchè è come quando una persona mangia ananas scaduti pur di non sprecarli. Poi vomita, ma questo non importa. (Dal mio romanzo “Masters-Fistfucking Per Violino Solo”)
“Enter The Void” di Gaspar Noé
26 NovRegista spesso al centro di spiazzamenti da parte del pubblico, Gaspar Noé non si demoralizza nel suo continuo ed impervio viaggio di ricerca del corpo, dell’anima e delle emozioni ed “Enter The Void” riesce ad esserne una sorta di testamento cinematografico. È, finalmente, un cinema completamente libero quello che il regista francese ci mostra in queste (quasi) tre ore di onirico viaggio. Un viaggio di suoni, colori, suggestioni ed empatia pura e cruda.
Un film-fiume dove Noé diluisce le sue più cupe ossessioni e le sue più feroci inquietudini, mettendo in luce dei personaggi-involucri che vogliono solo cercare un’identità, dopo terribili sconvolgimenti nel loro passato. Il catalizzatore di tutto questo male è Linda, la sorella del protagonista, bruttina, ma dotata di un invidiabile sex-appeal, destinata a scendere nella più cruda desolazione. È, infatti, possibile trovare un futuro in un mondo depravato e triste, che si ciba di sesso, droga ed anime? La capitale giapponese che Gaspar Noè dipinge di nuances al neon e battiti epilettici è l’ambiente più straniante (e straziante) sia mai stato impresso su schermo. È l’opprimente gioia di vivere apparente, che nasconde serpenti velenosissimi, avvicinandosi, in più punti ai mondi distruttivi di Lynch.
Che cos’è, infatti, “Enter The Void”, se non l’”Inland Empire” di Noé? Un film lentissimo e fluido, non onirico, perché è al di là persino del sogno. Un continuo susseguirsi lento ma violento di pianosequenza, che rimane impresso, soprattutto negli ultimi – straordinari- venti minuti, dove si scatena l’inferno dantesco di Noè: un continuo entrare ed uscire da corpi, strisciare su vetri e palazzi e giocare con gli sguardi, le luci e le ombre.
Il cinema di Noè non ha nulla di narrativo: è un cinema che racconta poco, pochissimo, ma che infligge ferite profondissime, da rimarginare e riaprire, sempre, durante la visione. E non è un caso, quindi, che sia un film che racconti poco, ma che non sia prolisso, nonostante l’eterna durata, perché il concetto passa solo quando si ferisce e si ipnotizza lo spettatore. Il mondo desolato e conturbante di Noè emerge solo quando non viene sbattuto in faccia a chi vede, ma quando emerge attraverso il dolore avvertito anche dagli oggetti: le lampade intermittenti ne sono la metafora incarnata. Ed è ancora più sporca l’intenzione, riuscendo ad essere velata ed elegantissima anche quando la telecamera riprende un amplesso sessuale all’interno dei due corpi in effusione.
“Enter The Void” è l’incantesimo ipnotizzatore fatto di fluttuanti movimenti di macchina che irrompono in cose e persone, che raggiungono alcune vette sublimi e indimenticabili (la cinepresa che entra nel foro da proiettile sul corpo di Thomas ed esce dall’ orecchio di Linda addormentata, il continuo entrare e uscire dai lavandini, la bellissima scena di Oscar e Linda sull’ottovolante che si va a schiantare come l’auto con i loro genitori), ma che non corrono mai il rischio dell’autocompiacimento.
Il cinema di Noé un cinema di carne, sangue, ossa. Un cinema sul corpo che violenta i suoi attori e lo spettatore, che lo ferisce e lo ricopre di carezze. Questo è il cinema libero, finalmente un cinema libero e divoratore, che vuole gridare senza scatenare compassione e che non vuole assolutamente farsi dimenticare Riuscendoci.
I film della settimana
26 NovCorea Del Sud, 2009. Di Jang Kun-Jae. Genere: Drammatico.
Verosimile nel suo mettere in scena un dramma morboso, eppure cristallino, esprimendo in modo sconvolgente il trauma dell’adolescenza e l’impossibilità di esprimersi in un mondo massacrante. Crudo, psicologicamente violento, eppure anche dolcissimo, è un saggio splendido di come fare cinema senza un budget, avvicinandosi allo stile dogma95 e al cinema dei Dardenne, ma con una propria identità. Imperdibile.
Freaks
USA, 1932. Di Tod Browning. Genere: Drammatico/Grottesco.
Classico su cui non bisognerebbe aggiungere parole. Universo squallido e iperbolico di un cinema fuori dal tempo, meravigliosamente messo in scena da un talento visivo invidiabile che concretizza i suoi personaggi in un taglio profondamente teatrale, quasi tetro e li umanizza con convinzione (le sorelle siamesi nella splendida scena in cui una delle due amoreggia con l’uomo che ama, e l’altra sente la medesima passione) e con una psicologia tutt’altro che banale. Browning sputa su tutti, senza finti moralismi, senza lacrime, ma creando una perversa empatia tra spettatore e personaggi, filmando con distacco ed esuberanza.
Ungheria, 2006. Di Gyorgi Palfi. Genere: Grottesco.
Parabola di tre generazioni di uomini, ossessionati da tre cose che li porteranno ad un’evoluzione di corpo e spirito: il sesso, il cibo, la morte. Un film complesso e bizzarro che regge il gioco grazie alla visionarietà sorprendente di uno dei massimi autori del cinema ungherese contemporaneo. Un film senza genere, destinato a sconvolgere e far riflettere. Scena splendida: Uno schizzo di liquido seminale raggiunge il cielo e si tramuta in costellazione.
retrospettiva. kim ki-duk, il mio dio del cinema.
26 NovDalla sua idea sulla morte, agli insulti rivolti a chi gli ha voltato le spalle. Kim Ki-duk si sfoga e, ovviamente, lo fa a suo modo: cantando l’arirang, canto tradizionale coreano, mentre la telecamera riprende le locandine, i premi vinti e i copioni. Kim Ki-Duk si sdoppia (ricordiamo che il doppio, la scomposizione, è presente quasi sempre in ogni suo film), a specchio, e diventa quasi un caleidoscopio: lui parla a sé stesso, l’ombra parla a lui , ma al contempo un quarto Kim Ki-Duk guarda divertito il girato ai limiti della disperazione.
Documentario o montatura? Kim Ki-Duk non si sforza di nascondere le cose: “Può darsi che prima stessi recitando, che non sono arrivato davvero a piangere.” Ma poi, la caduta verso gli inferi. Kim Ki-Duk urla, disperato, e si costruisce una pistola, pronto a mietere vittime. Le vittime sono i set dove ha girato i suoi film. Li uccide tutti, a sangue freddo. La strada di “Soffio”, il vicolo dei love hotel di “La Samaritana”, freddati completamente. E poi, il suicidio artistico. Ancora l’arirang. Il ciclo continuo della vita ancora una volta incarnato alla perfezione: Non sono più le stagioni le componenti del ciclo vitale, ma le emozioni. La ciclicità è alla base del cinema di Kim ed emerge anche nei movimenti quotidiani sempre ripetuti (il caffè, ininterrottamente preparato, lui che dà da mangiare al gatto….). Quando sei solo, la vita è pura e mera alienazione. Lo struggente ritratto di uno dei più grandi artisti del ventunesimo secolo, il cui obiettivo era semplicemente: “Realizzare dei film ingenui, innocenti, imperfetti.”
Il devastante e fottutissimo capolavoro di quest’anno.
PS: Ho pianto.
I dischi della settimana.
25 NovNat Baldwin – People Changes
Dirty Projectors– Bitte Orca
Neon Indian– Era Extrana
E nello stereo da tipo tre mesi…
Bjork– Biophilia
L’ennesimo capolavoro della musa.
Diventa verde.
25 NovIl tuo cuore mi era stato puntato alla tempia. Poteva esplodere da un momento all’altro, l’oscuro petardo che portava prima allo scoppio di un fuoco d’artificio, e poi al braccio rotto. (Da il mio racconto “I Sogni Sono Proiettili”)
Dal mio racconto “I Sogni Sono Proiettili”:
Qualcuno mi spieghi questa mia straordinaria voglia di estraniarmi dai vostri avvenimenti per guardarmi dentro e scoprire che sono più complesso di quanto pensavo. Ci sono attimi in cui le vostre storie sembra debbano appartenere a voi e a nessun altro. E la mia testa rimbomba altrove, tra una nuvola e l’altra. E ti ricordi, Vasumitra? Di quando ci scambiavamo i cuori nei sottopassaggi e in riva al lago, con i sassi che ci facevano male ai piedi nudi? Con l’erba alta che ci pizzicava le cosce e i desideri sussurrati tra i fiori che sbocciano.
E di quando abbiamo fatto la stronzata di scappare insieme e ci hanno beccati alla dogana, con il tuo sorriso che ingannava anche il cielo? E mi gridavi che volevi andartene, che per noi non c’erano limiti, e ci siamo ritrovati a inghiottire saliva nei sottopassaggi. E le sinfonie di passi che trasalgono altrove, come quei canti liturgici del cinquecento.
E ti ricordi che in quarta liceo già lavoravi per pagarti l’accademia? Che i tuoi genitori ti manganellavano per la tua scelta di studiare arte. Con la più grande perizia hai mandato a fanculo il mondo, correndo da me con il cuore gocciolante in mano, a gridarmi che avevi passato l’esame di ammissione e che potevi diventare pittrice. E se anche dipingevi solo quadri altrui o dipinti monocromatici eri felice, perché in tutto quel nero vedevi le mie pupille. Io ci vedevo solo nero, ma ero felice. E ogni volta che piangevi tagliavi le tele, cosìcchè anche le tue creazioni potessero piangere. Che bei tempi, quando le tue vene sussultavano ogni volta che la lingua correva sul palato. E io volevo baciarti gli occhi, perchè splendevano, e dovevo frenarmi perchè hai la fobia del collirio.
Di quando mi chiedevi se il tuo ciclo ti sporcava la gonna o l’anima, che eri preoccupata che tutti notassero che eri umana, di quando temevi che la città ti crollasse sulla fronte o di quando non avevi i soldi per una bibita e te l’ho offerta controvoglia. Mi hai detto che sono tirchio, ma in verità, è perché stavi andando a casa, non per la bibita. Ogni volta che ci lasciavamo temevo di non rivederti. E poi sono arrivati i viaggi, dove ci perdevamo di vista anche quando li facevamo insieme. A cavalcare le onde di Venezia con i traghetti, perché non potevamo permetterci le gondole. A circumnavigare i tuoi occhi ad Amsterdam, tra una boccata d’aria pulita e una di fumo. I tuoi capelli che volavano sempre intorno al tuo viso. E io che cercavo solo un posto dove agganciare la mia ancora, mi ritrovavo sempre a Milano sotto quel bicchiere che sprofonda sulle nostre teste e che circonda la città. Quel bicchiere chiamato cielo. Forse l’avevo trovato.
A Madrid, a Puerta Del Sol, dove ci siamo fermati a mangiare churros e cioccolata calda. Tu con i tuoi piedi scalzi in infradito di plastica con il laccio rotto, non rifiutavi il ribollire sacro della cioccolata con la calura estiva. Dicevi che faceva caldo e che il tamburellare lisergico dei danzatori di strada di distraeva dai tuoi salti cardiaci. E mi chiedevi se con quel caldo, in qualche altra parte del mondo nevicasse. Ti ho risposto “Forse in Antartide”. Ma tu hai abbassato lo sguardo dicendo che non era possibile.
E poi quando mangiavamo ti tartassavo con le mie ansie igieniche, togliendoti un libro o una rivista di mano dicendoti che mi disgustava. Di quando mi raccontavi che mi credevi immortale e che quando facevamo l’amore era un po’ come combattere una guerra tra le lenzuola, con la notte che calava come un drappo scuro e inaspriva di ombre cinesi le nostre pareti, e le ammiravi danzare sontuose ed eleganti. Ascoltavamo insieme canzoni straniere alle quattro di notte e tu ne storpiavi le parole. Avevano un potenziale lacrimogeno, ma sotto le tue ansie divertite, erano sketch comici.
Poi dovevi studiare, che c’era un esame a divorarti le vene perché non ti bastavano le canne. E dovevi lavorare. E mi preparavi cocktail da dietro il bancone come se fossi un tuo cliente. Ti chiedevo i più strani per innervosirti e mi minacciavi sorridendo che non avevamo preservativi e che il sole stava per esplodere e saremmo morti tutti.
Eppure sono morto solo io.
Scriverti sulla fronte “Torno Subito”, e non tornare mai.
I tuoi occhi che sono saracinesche abbassate.
Benvenuti nei miei inferi allegri e barocchi
25 NovNon pensavo a nulla, ma il suo danzare impacciato amoreggiava con i miei più profondi dispiaceri, tramutati improvvisamente in incantesimi possibili anche a coloro che ragionano solo con la scienza. Sentivo qualcosa che mai avrei provato in futuro e che avrei scambiato solo per una fiaba, come “Jack E Il Fagiolo Magico” o “Cenerentola”. Amore. Sentivo il sensibile viaggiare pulsante del sangue nelle sue arterie. Sentivo di essere lui.
E tutto si annullava. I ricordi. Le emozioni. Erano solo fotografie da strappare e da gettare come briciole di pane, per ritrovare solo successivamente il sentiero di casa. Eravamo tutti Hansel o Gretel, o la strega cattiva. Aspettavamo che qualcuno si lasciasse tentare dal marzapane del proprio cuore per farlo a pezzi. L’amore è macabro e ripugnante, quanto disperatamente irresistibile. Appiccavo incendi nella foresta della strega, pur di goderne della dolcezza, con i suoi baci che mi cadevano addossso come rivoli di sangue. Eppure, insieme all’ardore di una purezza infinita, io sentivo anche una rabbia inconscia, non omicida, ma pura, che sembra assente ma c’è ed è pronta a morderti quando volti la testa per andare ad aprire a qualcun altro.
Andarsi a nascondere in una grotta è impossibile. Tutte le ombre di quelle fronde si proiettano sempre su di essa e le lanterne accese di quella casa in fiamme diventano falene suicide. Accade sempre, ogni volta che ci si innamora, ogni volta che si crede di essere felici. La felicità spetta a chi non ha emozioni, quindi assolutamente a nessuno. Soffrire è umano. Non c’è redenzione.
I baci mi scivolavano ora in bocca, come grandine durante un cielo in tempesta, d’estate. Agosto e la furia che si trascina dietro. Gli squarci nel cielo e le nuvole autolesioniste che si tingono di nero. Ogni tocco, ogni battito, ogni barlume diventavano orgasmi inutili e vuoti, eppure in grado di distruggere una città intera. Un mondo. Far saltare in aria questo schifo di pianeta e tutte le sue creature. Con le costellazioni come uniche osservatrici dell’universo.
Solo in quei momenti ti accorgi come l’amore, cosa viscida, certo, possa essere tremendamente vincente. Quando fai scattare l’attimo, tutto esplode e ti senti immortale, terribilmente invincibile.
È un momento che dura poco, ma che se vissuto intensamente può portare alla serenità. Vulcani impazziti in eruzione. Poi cresci e capisci che, in amore, non vince chi fugge, ma chi scopa.
Ma che bello rituffarsi in certi abissi oscuri, lasciarsi affascinare da meduse dal colore del carbone e coralli morenti, ma speranzosi. Che bello sapere di essere finalmente vivi, e di avere un senso.
Che bello sognare e dire “Io esisto, cazzo, io sono qui”, mandando a fare in culo le disillusioni che vengono usate per vendetta.
[Dal mio romanzo “Masters- Fistfucking Per Violino Solo”]