Archivio | dicembre, 2011

“Guilty Of Romance”, di Sion Sono

23 Dic

“Il sesso ci salverà tutti.” 
Una detective è incaricata di risolvere il mistero attorno al corpo smembrato di una donna, le cui parti mancanti sono state sostiutiti da arti e testa di un manichino. Le indagini si intrecciano con la vicenda movimentata di una donna, Izumi, castigata moglie di un noto scrittore maniaco della pulizia e dell’ordine, la cui libido è ostacolata dal comportamento serio e restrittivo del marito. Stanca di essere una massaia, Izumi decide di lavorare in un supermercato prima, poi come modella e, infine, come prostituta, scoprendo gli angoli più bui e insani della sua anima.

Alla vicenda di Izumi si intreccia quella di Mitsuko, rispettabile professoressa di letteratura di giorno e prostituta di notte, con cui inizia un rapporto ambiguo e basato sulla scoperta e la piena coscienza di sé stessi…

Straordinario e complesso capolavoro. Uno dei più bei film dell’anno e uno degli apici di Sion Sono, che, comunque, ha un curriculum rispettabilissimo, disseminato di grandissimi film e altri, più che ottimi: morbosissimo e straordinario, con un controllo maniacale dei tempi e dell’azione, che lo rendono un film meravigliosamente costruito su un climax che, prima si avvicina piano piano, e poi strangola letteralmente lo spettatore, fino ad un finale che pare quasi tetro.

Un film completamente al femminile (e, forse, anche femminista), dove gli uomini, spesso inutili o di malafede, occupano una posizione marginale e di contorno, ma che riescono comunque a sconvolgere in negativo la vita delle protagoniste: un film che parla di libera espressione sessuale, ma che non si ferma qui, scavando sempre più a fondo, arrivando all’insoluto e il recondito, sconvolgendo di secondo in secondo, accarezandoti con una mano e evirandoti con l’altra.

Il suo più infernale e sepolcrale, persino più di “Suicide Club” o “Cold Fish“. Il declino dell’essere umano verso la follia e l’omicidio dell’anima. Travestito da thriller, è in realtà un degrado psicologico che neanche David Lynch, dove tutti i tasselli trovano il loro posto, ma senza darti mai una spiegazione da film hollywoodiano, preferendo lasciare il suo spettatore nella sporcizia che si è tirato addosso. E dimostra che il cinema giapponese non ha paura di mostrare l’immostrabile (c’è persino una scena alquanto spudorata che, se fosse stata girata da un regista occidentale, l’avrebbero fucilato in piazza: Izumi, ormai sull’orlo del delirio, urina con il sorriso stampato in viso, davanti a due bambini delle elementari che la guardano divertiti) .

Un film dove il cinismo si mescola allo sporco, dove il dramma diventa improvvisamente grottesco, e forse, anche horror. Dove non c’è redenzione per questi esseri umani, vittime di una società sbagliata e oscura.

Genio.

“I Am Keiko” di Sion Sono

18 Dic

Il geniale regista giapponese Sion Sono è più conosciuto per la moltitudine di capolavori cinematografici, spesso anarchici e fuori dagli schemi che ha realizzato. Conosciutissimo anche in Occidente, il regista ha sconvolto la sua Nazione con il controverso horror metafisico “Suicide Club” (2001), che leggeva il problema del suicidio in termini filosofici e legati alla solitudine e all’incomunicabilità, argomenti chiavi dell’arte asiatica, soprattutto cinematografica, ha però un curriculum di tutto rispetto, con film sperimentali e non realizzati sin dagli anni ’80.

Tra quelli meno conosciuti, c’è questo  “I Am Keiko“, del 1997. Un film spiazzante per il suo desiderio anti-narrativo e di anti-finzione (più volte il film si annuncia come film e non come storia, vantandosi di durare esattamente un’ora, un minuto e un secondo), che non ha una trama, ma ci vuole presentare un personaggio: l’apatica e solitaria Keiko, una cameriera di ventidue anni che, dopo la morte del padre, spento da un cancro allo stomaco, ha iniziato a prendere coscienza del passaggio del tempo e della sua potenza. Ossessionata dallo scorrere preciso e perfetto del tempo, la ragazza inizia a documentare la sua vita come se fosse governata da un cronometro, e la racconta attraverso lunghi monologhi meccanici, mostrandoci la sua solitudine, la sua chiusura con sé stessa e il mondo fuori, che cambia.
Keiko ci dice: “é notte. Qualcuno, ora, starà dormendo, altri piangeranno, altri rideranno, altri ancora staranno scopando. E io? Io sono sola in questa stanza, con le ossa di mio padre”.

Film dall’altissimo carattere sperimentale, che si snoda in lunghissime inquadrature fisse e una fotografia saturata e accesa, che spiazza e sconvolge con garbo, aprendosi su un’interminabile primo piano fisso della protagonista che, con lo sguardo compie lentissimamente il movimento delle lancette in un orologio, finchè non le scende una lacrima.

Più che un film, infatti, “I Am Keiko” è un videodiario che, sotto l’atmosfera ludica (seppur lenta e quasi zen), ci racconta la tristezza e la desolazione di una donna che, del tempo, ha fatto la sua unica ragione di vita, dimenticandosi i piaceri della quotidianeità e della curiosità. Troppo legata all’idea del ricordo, meccanicizza la vita umana, dandoci tantissimi spunti di riflessione.

Un film splendido, di cui si dovrebbe parlare per ore, eppure è difficile e lo sconsiglio ai meno preparati, persino a quei fan del regista, che si erano lasciati sedurre da quel caleidoscopio d’azione, violenza e sesso di quell’epopea biblica che è “Love Exposure” (2008). Per tutti gli altri, assolutamente da recuperare: la filosofia del regista è tutta qui. Solitudine, alienazione, rapporto conflittuale con la vita e crescita emotiva, con dei momenti che toccano vertici di cinema assoluti.

“Tra 3600 secondi esatti, le luci del cinema si riaccenderanno e molti di voi andranno a fumarsi una sigaretta, slegandovi completamente dal tempo, quando in realtà è il tempo stesso a legarvi a lui”.

requiem.

4 Dic

La tua auto è fredda, gelida, anche con il riscaldamento acceso. E il tuo sospiro sempre troppo vicino che mi infastidisce. Io che a te regalerei campi di girasoli e spiagge deserte, finisco immediatamente con il riconciliare le mie divagazioni post-romantiche ad una nascente malinconia, che mi strugge. Che ti strugge.

Ucciderò quest’eclissi che, ogni volta che siamo troppo vicini, ci oscura l’anima.
Tu che mi uccidi con freddezza. Le tue parole bombe a mano. E io che scivolo fuori dalla tua macchina, raccogliendo la mia ombra come il filo di Arianna.

Mi torturi di lacrime, senza pensarci su. Che il tuo abbraccio d’addio è un filo spinato per separare i nostri confini. E io, senza visto, ti vedo andartene lontano. La mia economia in crollo e il mio porto vuoto, la mia anima che è una nazione in rovina. Mi chiameranno per depennarmi dal G8. Mi chiameranno per chiudermi in ergastolo sulla tua lingua, per piangerti addosso e tessere pallini impazziti sul tuo televisore rotto. Lo lanciasti dalla finestra.

Come  le superstizioni che, da bambini, ci imprigionavano nelle piastrelle, perchè non volevamo mai toccare le linee di separazione, tornano a farsi risentire.
La mia chiave che gira nella serratura. Cancellati, cristo sott’acido.

Cancellati. Disintegrati.
Tra i miei fili di perle che mi scorrono addosso, le palpebre che si chiudono a ritmo e lo scrosciare infausto di ombre sotto la luce notturna. Io che vorrei dirti quanto ti voglio bene, ma che non possiedo un passaporto per entrare nella tua anima. E riduco questo sfogo scritto in un delirante muro dei pianti. Ci fotograferanno mentre strappiamo i nostri volti. E le fototessere seminate come briciole per ritrovare la strada di casa.
Così lontani. Così vicini.

Perdonami. Perdonami ancora.

I miei divieti di sosta e di fermata nella tua testa.

i just wanna punch god in the face.

2 Dic

la solita leggiadra sinfonia ridotta ad un carnevale orribile.

2 Dic

Immersione in risate isteriche. Abissi assordanti. Vorticosi pianti di nulla. Silenzi distruttivi. Armi nucleari di massa di aperture orali. Strepitii di attimi angoscianti e scrosciare di pause. Volteggiare di inutilità circoncise e ansie pirotecniche. Giravolte di sguardi senza volto, di pupille dilatate senza iride. Terrore e panico al tramonto, uccidono il crepuscolo. Uccidono il crepuscolo. Uccidono il crepuscolo.
Massacro di romanticismo. Battito di palpebra. Distruzione di massa di cantautori “sole, cuore, amoe”. Battito di palpebra. Incendi di poesie. Battito di palpebre. Sangue che pulsa. Battito di palpebre. Graffiti di coppie scoppiate. Occhi chiusi.

I miei occhi, così scuri e poco umani, sembrano pietre da scagliare contro i porci che mi stanno sotto, avvinghiati alle mie caviglie. I suoi sono oceani da solcare. Vorrei gettarmi dentro di lui e nuotarci dentro, naufragare sulla sua anima, senza sentire il bisogno di scriverci sopra HELP, affinchè i suoi lobi possano vedermi e salvarmi. Ho sognato di contrarre la sifilide dagli insetti, da quelle larve lunghe e nere che sono i tuoi capelli. Ho sognato che mi trafiggevi le interiora a suon di “Bastardo!”, colpendo duro al di sopra dell’ombelico. Ho sognato che mi sognavi mentre mi sporgevo, bambino, troppo oltre il balcone. Puoi anche credermi morto, ma voglio he mi pensi. Voglio starti sulla coscienza, appoggiato sulle tue spalle, con i denti sul tuo collo. A fottere i tuoi occhi. A fottere i tuoi occhi. E rivenderli.

Il fumo che le esce dalle labbra socchiuse forma strambe meduse, pronte a conquistare il cielo e farlo a pezzi. Infrangerlo come uno specchio. Sette anni di dolore.

(Da “Masters – Fistfucking Per Violino Solo)