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“Irreversible” di Gaspar Noé

16 Apr

“Il tempo Distrugge Ogni Cosa”, questa la chiave del controverso secondo lungometraggio di Gaspar Noé (dopo “Seul Contre Tous” del 1998 e “Enter The Void” del 2009, di cui ho già parlato qui), un film accolto in modo indegno da una critica con la puzza sotto il naso e dal pubblico che si crogiola nelle acide considerazione dei critici pronti a masturbarsi su qualsiasi cosa che duri quattro ore e mezzo e raggiunga l’emblema dell’immobilismo.
Indegno, perchè è troppo facile parlar male di un film che, invece, andrebbe rivalutato dal principio. Perchè sono ben pochi i film che, nella cinematografia occidentale contemporanea, sanno essere così “oltre”, così devastanti, purificanti e carnali come “Irreversible“, un film capace di scuoterti e non abbandonarti più, per giorni interi.
Indegno è criticare un film perchè fa comodo, senza averlo capito (le recensioni negative che si trovano in giro, infatti, non si esplicano quasi mai, puntando con faciloneria a elementi indispensabili per la creazione del film stesso), solo perchè nel cast figura la nostrana femme fatale Monica Bellucci, tra l’altro in una performance invidiabile, sicuramente la migliore della sua carriera.
Quando la donna ideale degli uomini eterosessuali italiani, infatti, si spoglia dei personaggi che le vengono cuciti addosso solo per il suo aspetto fisico (la burina, la romana sboccata, il puttanone), riesce persino a recitare in modo eccellente. Accade qui, in un film che finalmente riesce a darle grosse libertà espressive, sconvolgendola. Apice, e motivo di fischi, è la scena in cui la protagonista femminile incontra il proprio infausto destino in un sottopassaggio parigino dalle pareti infuocate di rosso morte.

12 minuti di camera fissa, rasoterra, di una Bellucci come non la si è mai vista prima: rantola sotto le luci al neon intermittendi, si inarca, urla: è incredibilmente pacata, vulnerabile, struggente. Pronta ad abbandonare la sua sensualità, si dipinge di fango.
12 minuti di stupro, tra i più agghiaccianti della storia del cinema, se non il più. Noè non ha paura di farcelo vedere, destando il disgusto, discussioni di buon senso e altre cose che sarebbero la gola dei conservatori.
Perchè filmare quest’indecenza? Perchè Noè vuole inchiodare lo spettatore, e lo fa con incredibile facilità: il suo cinismo risiede nel prendere una delle donne considerata tra le più belle al mondo e di spogliarla per distruggere chi vede. Non c’è nulla di eccitante in questo squarcio di inferno, che è parodia stessa della vita: un uomo che scende in un sottopassaggio, resta a guardare per due secondi e poi se ne va.

Allo spettatore non è concesso: deve guardare tutto, da vicino, e non può intervenire. Lo deve subire perchè ha voluto, per mero voyeurismo, deridere, partecipando alla sofferenza di un uomo (Vincent Cassel) a cui hanno stuprato e ucciso la fidanzata. Perchè l’essere umano gode nel vedere la sofferenza altrui e cerca di non convincersene, ma è così.

“Il Tempo Distrugge Tutto”, dicevamo. E qui arriva l’idea dalla narrazione al contrario. Criticatissima perchè pare copiata da un filmaccio come “Memento” (2000) di Cristopher Nolan, come se neanche fosse il primo ad adottare questa scelta “innovativa” (dove lo lasciamo “Peppermint Candy” di Lee Chang-Dong, uscito nel 1998?).
Se nel film di Nolan il ritorno al passato è solo un pretesto per ricostruire un’identità di ricordi e per vezzo stilistico e in “Peppermint Candy” è una scelta per descrivere cosa può spingere un uomo al suicidio, in “Irreversible” la narrazione inversa è la base dello stesso film: Il tempo distrugge tutto.

Un film di vendetta non può che partire al contrario, perchè la vendetta stessa cerca di rimediare, inutilmente, a qualcosa che è successo nel passato. Tenta di strappare dalla morte i propri cari e i propri affetti, pur essendo consci di quanto sia inutile. Ed è beffardo il tentativo di sottolineare la vanità della vendetta per Noé: l’uomo che viene ucciso dal migliore amico di Cassel non è lo stupratore (e non è uno spoiler, perchè lo si scopre quasi subito).

Un film di osservazione pura, “Irreversible”, che è sublime nella sua capacità di sfruttare la narrazione inversa (pericolosissima, invero, per un vengeance-movie, visto che l’azione normalmente si concentrerebbe nel finale, mentre all’inverso, è concentrata nella prima mezz’ora, con l’aggravante di sapere già tutto), per inchiodare alla poltrona: con una semplicità solo apparente, infatti, Noè nasconde simbolismi, indizi (fate attenzione ai dialoghi tra i tre protagonisti durante il viaggio in metro, la Bellucci che si toglie la mano del fidanzato dalla bocca, proprio come farà con lo stupratore, il desiderio scherzoso di Cassel di sodomizzare la fidanzata, che diventa orribile presagio, il libro che legge la Bellucci sulla potenza dei sogni premonitori e sul tempo che è già scritto), distruggendo ulteriormente lo spettatore.

E Noè, senza pietà, porta lo spettatore in un finale di straordinaria bellezza, dove prima una bizzarra citazione di “2001: Odissea Nello Spazio” di Kubrick (perchè è un film che inizia con la nascita dell’uomo, mentre “Irreversible” è l’esatto contrario) e poi un sogno ad occhi aperti, di massacro dell’innocenza e di apocalisse del sogno borghese, portano ad un incubo di allucinazioni ed epilessia. Il tempo ha distrutto tutto: ha distrutto i suoi protagonisti, lo spettatore e il film stesso.

“Irreversible” è un film straordinario, un autentico capolavoro da riscoprire e valutare con più coscienza. Sicuramente, uno dei più coraggiosi che possiate trovare.

Barren Illusion (Kiyoshi Kurosawa)

23 Mar

Barren Illusion” di Kiyoshi Kurosawa è il miracolo cinematografico. Una rivoluzione distruttiva che sradica tutto il cinema pseudo-adrenalinico e cervellotico. Ritmo ascettico, lentissimo, ma mai stancante, con un’implosione assoluta anche nell’ambito puramente narrativo. è un film che non racconta assolutamente nulla, eppure resta, colpendo al cuore come un coltello affilato.

Lavora per concetti, suggestioni (l’uomo che scompare e ricompare, scompare e ricompare), immagini pure e disperate (il suicidio ingiustificato della donna), è un’altra apocalittica visione sull’incomunicabilità di Kiyoshi Kurosawa. Rarissimo esempio di cinema che rifiuta completamente il suo pubblico, distruggendolo anche con invisibili calci. è un film che ha solo una scena madre (il ritrovamento dello scheletro sulla spiaggia), pertanto non necessaria alla comprensione e che, non avendo alcun’invenzione di finzione, finisce semplicemente dove deve finire, senza trovare un finale ad effetto, con personaggi che paiono fantasmi e che, come tali, possono dissolversi da un momento all’altro.

Mai chiassoso, mai banale, è una fiaba urbana metafisica, perchè scava in profondità del corpo stesso, ma anche al di là del corpo. Oltre la vita. Oltre la morte. Capolavoro.

“Babel” di Alejandro Gonzales Inarritu

11 Feb

Un incantevole e crudele dramma che lega tre nazioni lontane nel mondo, un dramma che prende piede da un atto infantile di due ragazzini che vorrebbero diventare adulti. Ma il film parla proprio di questo: la ragazza giapponese che soffre del suo handicap e vede attorno sé la scoperta della sessualità dei suoi coetanei che vorrebbe provare, l’enfant terrible messicano che fa il duro, ma poi abbandona i suoi cari per scappare e i turisti americani che pensano prima a se stessi che a chi soffre davvero. è un film duro, ma anche vero, reale, sanguigno, che riesce a ridestare un minimo di speranza in un finale bellissimo e sofferto.

Ha degli attori straordinari (Rinko Kikuchi, Koji Yakusho, Gael Garcia Bernal, Adriana Barraza) e un pathos emotivo invidiabile, che trova il suo apice nella storia giapponese, sicuramente la più sofferta e bella: la bella e giovane Chieko viene ritratta nella sua disperata e triste scoperta della vita. Dura, fredda e disturbata, apre le gambe mostrando il suo segreto al mondo esterno, con estrema disinvoltura, ma con l’idea di raggiungere un vero rapporto umano. Quando si lascia sorprendere totalmente nuda dal padre, si raggiunge un apice di poesia estrema.

Un film che unisce e divide il mondo e i suoi esseri umani, tutti verso l’autodistruzione e la redenzione. Livido, a tratti isterico, altre volte silenziosissimo, con dei momenti registici straordinari (la scena nella discoteca di Tokyo, con l’audio forte della musica che, a scatti, sparisce, costringendoci alla sordità di Chieko).

Come un proiettile alla tempia, “Babel” resta dentro.

“The Day He Arrives” di Hong Sang-Soo

6 Gen
The Day He Arrives”.Lui la stringe ubriaco, lei urla e piange. Lui le dice: “Vieni qui, amore mio.” Lei gli dice: “Mi farai impazzire”, poi le parti si invertono e i due vengono invasi dal fumo di sigaretta. é il tenebroso e cinico sguardo di Hong Sang-Soo sul rapporto di coppia, impossibile da comprendere e come solo lui riesce a descrivere, scavando a fondo fino all’inconscio, dove la gente deve gridare sempre contro chi piange, perchè non può permetterselo, perchè non c’è un cuore tra loro. è l’orrore dell’amore, dell’incomunicabilità e della distruzione psicologica.

Un cinema che si ripete in continuazione ma che, parlando di vita, non riesce a stancare: perchè i suoi personaggi sono reali dispersi che affogano nell’alcol, in sigarette perennemente accese e rapporti sessuali senza amore. è l’inferno del cinema, ma anche della vita, raccontato con una leggerezza introvabile in altri autori. Filmone. E splendido l’uso del bianco e nero.

“Guilty Of Romance”, di Sion Sono

23 Dic

“Il sesso ci salverà tutti.” 
Una detective è incaricata di risolvere il mistero attorno al corpo smembrato di una donna, le cui parti mancanti sono state sostiutiti da arti e testa di un manichino. Le indagini si intrecciano con la vicenda movimentata di una donna, Izumi, castigata moglie di un noto scrittore maniaco della pulizia e dell’ordine, la cui libido è ostacolata dal comportamento serio e restrittivo del marito. Stanca di essere una massaia, Izumi decide di lavorare in un supermercato prima, poi come modella e, infine, come prostituta, scoprendo gli angoli più bui e insani della sua anima.

Alla vicenda di Izumi si intreccia quella di Mitsuko, rispettabile professoressa di letteratura di giorno e prostituta di notte, con cui inizia un rapporto ambiguo e basato sulla scoperta e la piena coscienza di sé stessi…

Straordinario e complesso capolavoro. Uno dei più bei film dell’anno e uno degli apici di Sion Sono, che, comunque, ha un curriculum rispettabilissimo, disseminato di grandissimi film e altri, più che ottimi: morbosissimo e straordinario, con un controllo maniacale dei tempi e dell’azione, che lo rendono un film meravigliosamente costruito su un climax che, prima si avvicina piano piano, e poi strangola letteralmente lo spettatore, fino ad un finale che pare quasi tetro.

Un film completamente al femminile (e, forse, anche femminista), dove gli uomini, spesso inutili o di malafede, occupano una posizione marginale e di contorno, ma che riescono comunque a sconvolgere in negativo la vita delle protagoniste: un film che parla di libera espressione sessuale, ma che non si ferma qui, scavando sempre più a fondo, arrivando all’insoluto e il recondito, sconvolgendo di secondo in secondo, accarezandoti con una mano e evirandoti con l’altra.

Il suo più infernale e sepolcrale, persino più di “Suicide Club” o “Cold Fish“. Il declino dell’essere umano verso la follia e l’omicidio dell’anima. Travestito da thriller, è in realtà un degrado psicologico che neanche David Lynch, dove tutti i tasselli trovano il loro posto, ma senza darti mai una spiegazione da film hollywoodiano, preferendo lasciare il suo spettatore nella sporcizia che si è tirato addosso. E dimostra che il cinema giapponese non ha paura di mostrare l’immostrabile (c’è persino una scena alquanto spudorata che, se fosse stata girata da un regista occidentale, l’avrebbero fucilato in piazza: Izumi, ormai sull’orlo del delirio, urina con il sorriso stampato in viso, davanti a due bambini delle elementari che la guardano divertiti) .

Un film dove il cinismo si mescola allo sporco, dove il dramma diventa improvvisamente grottesco, e forse, anche horror. Dove non c’è redenzione per questi esseri umani, vittime di una società sbagliata e oscura.

Genio.

“I Am Keiko” di Sion Sono

18 Dic

Il geniale regista giapponese Sion Sono è più conosciuto per la moltitudine di capolavori cinematografici, spesso anarchici e fuori dagli schemi che ha realizzato. Conosciutissimo anche in Occidente, il regista ha sconvolto la sua Nazione con il controverso horror metafisico “Suicide Club” (2001), che leggeva il problema del suicidio in termini filosofici e legati alla solitudine e all’incomunicabilità, argomenti chiavi dell’arte asiatica, soprattutto cinematografica, ha però un curriculum di tutto rispetto, con film sperimentali e non realizzati sin dagli anni ’80.

Tra quelli meno conosciuti, c’è questo  “I Am Keiko“, del 1997. Un film spiazzante per il suo desiderio anti-narrativo e di anti-finzione (più volte il film si annuncia come film e non come storia, vantandosi di durare esattamente un’ora, un minuto e un secondo), che non ha una trama, ma ci vuole presentare un personaggio: l’apatica e solitaria Keiko, una cameriera di ventidue anni che, dopo la morte del padre, spento da un cancro allo stomaco, ha iniziato a prendere coscienza del passaggio del tempo e della sua potenza. Ossessionata dallo scorrere preciso e perfetto del tempo, la ragazza inizia a documentare la sua vita come se fosse governata da un cronometro, e la racconta attraverso lunghi monologhi meccanici, mostrandoci la sua solitudine, la sua chiusura con sé stessa e il mondo fuori, che cambia.
Keiko ci dice: “é notte. Qualcuno, ora, starà dormendo, altri piangeranno, altri rideranno, altri ancora staranno scopando. E io? Io sono sola in questa stanza, con le ossa di mio padre”.

Film dall’altissimo carattere sperimentale, che si snoda in lunghissime inquadrature fisse e una fotografia saturata e accesa, che spiazza e sconvolge con garbo, aprendosi su un’interminabile primo piano fisso della protagonista che, con lo sguardo compie lentissimamente il movimento delle lancette in un orologio, finchè non le scende una lacrima.

Più che un film, infatti, “I Am Keiko” è un videodiario che, sotto l’atmosfera ludica (seppur lenta e quasi zen), ci racconta la tristezza e la desolazione di una donna che, del tempo, ha fatto la sua unica ragione di vita, dimenticandosi i piaceri della quotidianeità e della curiosità. Troppo legata all’idea del ricordo, meccanicizza la vita umana, dandoci tantissimi spunti di riflessione.

Un film splendido, di cui si dovrebbe parlare per ore, eppure è difficile e lo sconsiglio ai meno preparati, persino a quei fan del regista, che si erano lasciati sedurre da quel caleidoscopio d’azione, violenza e sesso di quell’epopea biblica che è “Love Exposure” (2008). Per tutti gli altri, assolutamente da recuperare: la filosofia del regista è tutta qui. Solitudine, alienazione, rapporto conflittuale con la vita e crescita emotiva, con dei momenti che toccano vertici di cinema assoluti.

“Tra 3600 secondi esatti, le luci del cinema si riaccenderanno e molti di voi andranno a fumarsi una sigaretta, slegandovi completamente dal tempo, quando in realtà è il tempo stesso a legarvi a lui”.

“Enter The Void” di Gaspar Noé

26 Nov

Regista spesso al centro di spiazzamenti da parte del pubblico, Gaspar Noé non si demoralizza nel suo continuo ed impervio viaggio di ricerca del corpo, dell’anima e delle emozioni ed “Enter The Void” riesce ad esserne una sorta di testamento cinematografico. È, finalmente, un cinema completamente libero quello che il regista francese ci mostra in queste (quasi) tre ore di onirico viaggio. Un viaggio di suoni, colori, suggestioni ed empatia pura e cruda.

Un film-fiume dove Noé diluisce le sue più cupe ossessioni e le sue più feroci inquietudini, mettendo in luce dei personaggi-involucri che vogliono solo cercare un’identità, dopo terribili sconvolgimenti nel loro passato. Il catalizzatore di tutto questo male è Linda, la sorella del protagonista, bruttina, ma dotata di un invidiabile sex-appeal, destinata a scendere nella più cruda desolazione. È, infatti, possibile trovare un futuro in un mondo depravato e triste, che si ciba di sesso, droga ed anime? La capitale giapponese che Gaspar Noè dipinge di nuances al neon e battiti epilettici è l’ambiente più straniante (e straziante) sia mai stato impresso su schermo. È l’opprimente gioia di vivere apparente, che nasconde serpenti velenosissimi, avvicinandosi, in più punti ai mondi distruttivi di Lynch.


Che cos’è, infatti, “Enter The Void”, se non l’”Inland Empire” di Noé? Un film lentissimo e fluido, non onirico, perché è al di là persino del sogno. Un continuo susseguirsi lento ma violento di pianosequenza, che rimane impresso, soprattutto negli ultimi – straordinari- venti minuti, dove si scatena l’inferno dantesco di Noè: un continuo entrare ed uscire da corpi, strisciare su vetri e palazzi e giocare con gli sguardi, le luci e le ombre.

Il cinema di Noè non ha nulla di narrativo: è un cinema che racconta poco, pochissimo, ma che infligge ferite profondissime, da rimarginare e riaprire, sempre, durante la visione. E non è un caso, quindi, che sia un film che racconti poco, ma che non sia prolisso, nonostante l’eterna durata, perché il concetto passa solo quando si ferisce e si ipnotizza lo spettatore. Il mondo desolato e conturbante di Noè emerge solo quando non viene sbattuto in faccia a chi vede, ma quando emerge attraverso il dolore avvertito anche dagli oggetti: le lampade intermittenti ne sono la metafora incarnata. Ed è ancora più sporca l’intenzione, riuscendo ad essere velata ed elegantissima anche quando la telecamera riprende un amplesso sessuale all’interno dei due corpi in effusione.

“Enter The Void” è l’incantesimo ipnotizzatore fatto di fluttuanti movimenti di macchina che irrompono in cose e persone, che raggiungono alcune vette sublimi e indimenticabili (la cinepresa che entra nel foro da proiettile sul corpo di Thomas ed esce dall’ orecchio di Linda addormentata, il continuo entrare e uscire dai lavandini, la bellissima scena di Oscar e Linda sull’ottovolante che si va a schiantare come l’auto con i loro genitori), ma che non corrono mai il rischio dell’autocompiacimento.

Il cinema di Noé un cinema di carne, sangue, ossa. Un cinema sul corpo che violenta i suoi attori e lo spettatore, che lo ferisce e lo ricopre di carezze. Questo è il cinema libero, finalmente un cinema libero e divoratore, che vuole gridare senza scatenare compassione e che non vuole assolutamente farsi dimenticare Riuscendoci.

I film della settimana

26 Nov

Eighteen

Corea Del Sud, 2009. Di Jang Kun-Jae. Genere: Drammatico.

Verosimile nel suo mettere in scena un dramma morboso, eppure cristallino, esprimendo in modo sconvolgente il trauma dell’adolescenza e l’impossibilità di esprimersi in un mondo massacrante. Crudo, psicologicamente violento, eppure anche dolcissimo, è un saggio splendido di come fare cinema senza un budget, avvicinandosi allo stile dogma95 e al cinema dei Dardenne, ma con una propria identità. Imperdibile.

Freaks
USA, 1932. Di Tod Browning. Genere: Drammatico/Grottesco.

Classico su cui non bisognerebbe aggiungere parole. Universo squallido e iperbolico di un cinema fuori dal tempo, meravigliosamente messo in scena da un talento visivo invidiabile che concretizza i suoi personaggi in un taglio profondamente teatrale, quasi tetro e li umanizza con convinzione (le sorelle siamesi nella splendida scena in cui una delle due amoreggia con l’uomo che ama, e l’altra sente la medesima passione) e con una psicologia tutt’altro che banale. Browning sputa su tutti, senza finti moralismi, senza lacrime, ma creando una perversa empatia tra spettatore e personaggi, filmando con distacco ed esuberanza.

Taxidermia

Ungheria, 2006. Di Gyorgi Palfi. Genere: Grottesco.

Parabola di tre generazioni di uomini, ossessionati da tre cose che li porteranno ad un’evoluzione di corpo e spirito: il sesso, il cibo, la morte. Un film complesso e bizzarro che regge il gioco grazie alla visionarietà sorprendente di uno dei massimi autori del cinema ungherese contemporaneo. Un film senza genere, destinato a sconvolgere e far riflettere. Scena splendida: Uno schizzo di liquido seminale raggiunge il cielo e si tramuta in costellazione.

retrospettiva. kim ki-duk, il mio dio del cinema.

26 Nov
SPECIALE KIM KI-DUK
(Scritto dal sottoscritto per Officina Immagini Magazine)
Kim Ki-Duk, nato il 20 dicembre 1960, oltre che essere il mio regista preferito in assoluto, è considerato all’unanimità  uno dei più interessanti e talentuosi registi contemporanei, asiatici e non. In Occidente, il botto l’ha fatto con un’opera assolutamente imprescindibile come Primavera, Estate, Autunno, Inverno…E Ancora Primavera” (2003), grandissimo successo di pubblico e critica, nonostante la non-facilità di un’essenza poco narrativa e molto artistica. Kim Ki-Duk è uno dei pochi in grado di creare quadri figurativi dal nulla assoluto e di riempirli di senso (di altri registi capaci di farlo, in questo momento, mi viene in mente solo Tsai Ming-Liang). “Primavera” è un film che sopravvive nell’immagine ed è un continuo, inebriante ciclo vitale.
Le stagioni scorrono, come la vita, e il film le racconta, gettandosi a capofitto in un impressionante abisso di profondità.
Ma prima cosa c’era? C’era il cammino artistico di un uomo che, per sopravvivere, faceva il pittore di strada a Parigi e che, in vita sua, ha visto pochissimi film, quasi tutti blockbuster americani. Ed è impensabile che da un occhio apparentemente inesperto, si possa debuttare con un capolavoro comeCrocodile” (1996), estraniante viaggio nelle solitudini generazionali e sessuali. Una famiglia tutta maschile allo sfascio che vive ai bordi di un fiume, una giovane suicida e un amore che si dipinge sull’orlo del grottesco (emblematica la scena in cui il nonno muore nella macchinetta del caffè, o ancora la sodomia con il cetriolo) e il poetico (le inquadrature subacque, le barchette di carta che fluttuano, traspotando il messaggio di disagio e malinconia), trascinandosi in un finale assolutamente spiazzante e quasi teatrale nel suo paradosso puramente romantico. La prima fase del cinema di Kim Ki-Duk è sporca, ma in grado di colpire alla perfezione con immagini sensazionali e racconti che traducono in narrativa i mali e le felicità dell’essere umano.
Nel semiautobiografico Wild Animals” (1997), Kim Ki-Duk estremizza le proprie esperienze di immigrato Coreano a Parigi, cercando di tratteggiare il disagio di essere soli in una terra straniera. A volte lo fa con divertimento, toccando vertici da commedia (la scena in cui il protagonista non riesce a mangiare con le posate e i Francesi lo prendono in giro), altre volte scatenando quasi desolazione. Il film è il più sottovalutato in assoluto della carriera del maestro sudcoreano, eppure andrebbe rivalutato: nonostante sia minore di “Crocodile”, è un film di rara potenza e bellezza, dove cominciano ad emergere le basi del nuovo cinema Kimkidukkiano. Emergono i grandi personaggi femminili e quell’appassionato tentativo di estremizzare l’amore e le delusioni nelle relazioni umane (Assolutamente degna di nota la scena in cui la bella protagonista francese, stanca di essere picchiata dal fidanzato con il pesce surgelato, lo accoltella con lo stesso [!!!]). Tocca vertici grotteschi, quasi di cattivo gusto, eppure rielaborati con una poesia unica. “Wild Animals” è un film sull’amore universale (interessanti anche le riflessioni del conflitto tra Corea Del Nord e Corea Del Sud), ma soprattutto sull’arte e sulla sua funzione salvifica, ma che può avere anche funzione di approccio sessuale (la protagonista, totalmente nuda, chiede all’uomo di essere pitturata completamente di bianco). Nulla è totalmente buono o totalmente cattivo nel cinema di Kim Ki-Duk e questo emerge soprattutto nel finale, dove l’acqua (elemento chiave del suo cinema) sommerge ogni cosa.
Ma i suoi splendidi ritratti femminili emergono nel successivo capolavoro, lo splendido Birdcage Inn”(1998), dove Kim Ki-Duk ricomincia nel suo meraviglioso tentativo di sputare su tutto e su tutti, ma con una speranza in più, che emerge in un finale ottimista, poetico ed estremamente riuscito. È un racconto di donne sole, sia fortunate ma insicure, come la mascolina e scontrosaHye-Mi, segretamente lesbica, che derelitte di un mondo in piena decadenza come la bellissima ed eterea Jin-A, costretta a prostituirsi. È un racconto di formazione, che spingerà le due protagoniste adolescenti alla riscoperta di loro stesse, in un mondo dove l’uomo è animale (e questo emergerà nel meraviglioso “Address Unknown”, dove gli esseri umani vengono costantemente paragonati ai cani) e dove viene costantemente deriso (paradossale la scena in cui sia il padre che il fratello di Hye-Mi contraggono la sifilide, dopo aver fatto sesso con Jin-a). Ma la spiegazione di tutto il film resta in un’immagine di significativa bellezza: Il quadro “Le Sorelle” di Egon Schiele, appeso sul bagnasciuga e poi paragonato alla foto delle due ragazze, prima nemiche e poi sorelle, e forse anche amanti (bellissima la scena in cui Hye-Mi si sforza di copiare ogni gesto dell’amata/odiata Jin-A).
Il percorso Kimkidukkiano troverà, però, la massima forza in un’opera devastante come L’Isola” (2000), il suo capolavoro, dopo “Ferro 3- La Casa Vuota”. Un racconto di relazioni impossibili tra donne e uomini e di incomunicabilità (come spesso avviene nei suoi film, i personaggi principali o non parlano o parlano poco, mentre i personaggi secondari sfiorano spesso il logorroico) , che esplode in un delirio ai limiti del possibile, ma sempre sul versante poetico/romantico/artistico. L’uomo diventa un animale, che sia cane o pesce, è destinato ad essere tale. Per sentirsi uomo, l’essere umano cerca di lottare sul più debole: per questo il film diventa una parabola quasi insostenibile sulla violenza animale. I pesci (simbolo palesemente fallico) vengono macellati e ributtati vivi in mare, o stimolati con cariche elettriche, come stimolante sessuale. Le rane (simbolo legato all’organo genitale femminile) vengono uccise, spellate e date da mangiare agli uccelli (simbolo fallico), che vengono annegati vivi quando il rapporto s’incrina. Il cane (l’essere umano) viene sbeffeggiato e picchiato, mentre l’essere umano debole (la prostituta chiaccherona) è destinato a perire. È il suo film più sconvolgente e scomposto, cattivo, nonostante il ritmo lento, dove l’uomo e la donna non si comprendono e arrivano a disumanizzarsi per capirsi meglio (meravigliosa la scena in cui la protagonista pesca l’amato, dopo che l’ha nascosto dai poliziotti e poi, mentre lui agonizza lo sottomette e lo possiede)  o lasciano parlare gli oggetti (i pennelli che si strusciano l’uno sull’altro e che dimostrano di amarsi, molto più facilmente che gli umani; l’altalena/giocattolo, come gesto d’amore; lo sportello che funge da water nelle case galleggianti, come specchio tra il reale e la fantasia). E si può non parlare del finale? Il finale che ritengo essere il più bello in assoluto della storia del cinema? Che in un’immagine puramente simbolica distrugge tutto il castello di carte meravigliosamente concepito in precedenza e racchiude l’intero film? Opera d’arte.
Real Fiction”(2000)  è, invece, un giochetto puramente digitale. Bellissima opera sulla frammentazione dell’io e sul disagio di essere artisti cinematografici incompresi, nonostante non sia tra i migliori di Kim Ki-Duk necessita sicuramente attenzione, soprattutto per quanto riguarda l’indimenticabile scena della ragazza morta a terra, accanto ad una telecamera rotta. Il sangue collega le due creature, ma non è scontato che sia della ragazza. La ragazza potrebbe anche fingere, e il sangue è della telecamera. Il cinema che muore, che è protagonista assoluto e anima fragile.
Il discorso dell’incomunicabilità tra i sessi, però, torna a riemergere nel capitolo successivo, altrettanto imprescindibile: Bad Guy” (2001). Film più complesso di quanto si pensi, che costruisce una storia d’amore impossibile e illecita tra due confini temporali diversi. Kim Ki-Duk confonde le acque: chi è la vittima? La ragazza costretta a prostituirsi o l’uomo che si becca il suo sputo dritto in faccia? E chi è il carnefice?
Kim Ki-Duk evita ogni spiegazione hollywoodiana, per trascinarti nel suo sogno puramente divino, immergendosi ancora nell’arte (Il catalogo di Schiele, regalato come pegno d’amore. Il quadroL’Abbraccio”, che è l’incarnazione di un desiderio d’amore di una protagonista incredibilmente sola ed insicura) e nei disagi esistenziali dei suoi protagonisti. Meravigliosa la caratterizzazione della protagonista femminile che, come in tutti film di Kim Ki-Duk, è l’unione di più opposti: la dolcezza e la rabbia, la purezza e la sporcizia. E come spesso accade, è il personaggio più forte e combattivo dell’intera opera, pur nell’insicurezza. Ed è splendida l’immagine che sembra ritrarli in un momento di intimità meravigliosa, il preambolo di un bacio, ma che si conclude con lei che gli vomita sulla spalla.
In Indirizzo Sconosciuto” (2001), la crudezza torna a farsi sentire quasi immediata. Emerge la rabbia di un popolo (i Coreani), succubi di altri (gli Americani). Ambientato in un piccolo paesino di provincia, negli anni ’70, è la storia disperata di tre adolescenti coreani, tra i quali emerge sicuramente Eun-Ju, il classico personaggio femminile di Kim Ki-Duk. Bella e ribelle, Eun-Ju ha comunque un grosso punto in sospeso: è orba, ed è tutta colpa di un gioco infantile (guarda caso che concerne anche una pistola, elemento chiave di molti film di Kim Ki-Duk, tra cui l’ultimo “Arirang” “Time”) e questo le dà insicurezza, nonostante sia al centro delle attenzioni di un suo coetaneo. Il loro rapporto è impossibile: il ragazzo, per conquistarla, le dipinge un ritratto, dove non tiene i capelli davanti agli occhi, come invece fa sempre. Sarà nel momento in cui tutti e tre, per motivi vari, verranno riuniti in un fotogramma che li ritrae con un occhio coperto, che emergerà la sadica ironia dell’autore coreano, che qui dirige il suo film più cattivo e disperato. Sporco sin dalla fotografia sgranata, è un ritratto sconcertante degli esseri umani: sono tutti cani, dal primo all’ultimo. Pervertiti senza speranza (John), o assassini di animali (Il proprietario del canile, che poi verrà ucciso proprio come un cane: appeso e bastonato).
Ma Kim Ki-Duk non ci va leggero neanche con un più pacato e raffinato, ma sicuramente spiazzanteThe Cost Guard” (2002), disturbante riflessione del conflitto Corea del Nord/Corea del Sud, dove l’odio può portare anche all’uccisione di innocenti (due fidanzatini che amoreggiano sulla spiaggia) e dove la disperazione raggiunge momenti di pathos inarrivabili (la protagonista femminile, inerme davanti al corpo del fidanzato morto, avvicina la mano di lui alla sua bocca, ma non appena il campo si allarga, si vede che il braccio – in verità- è mozzato).
E non è leggero neanche un capolavoro come La Samaritana” (2004), disturbante ritratto generazionale. Il primo è l’ultimo film di Kim Ki-Duk a concentrarsi sul mondo dell’adolescenza, ma non solo. Due ragazzine, belle, ricche e spigliate decidono, inaspettatamente, di prostituirsi. La motivazione sembra essere “Trovare i soldi per un viaggio in Europa”, ma è solo una scusa, e lo si capisce dal fatto che viene accennato solo una volta. Può darsi che vogliano fare una cazzata così grande da non potersi salvare, oppure di amarsi (ambiguo il rapporto lesbico tra le due, così com’è ambiguo il rapporto tra padre e protagonista, più da amanti che da parenti)  in libertà e con ingenuità.
Una delle due muore. E l’altra, disperata, ne prende le sembianze. In un gioco di specchi, di cui nessuno sembra accorgersene (i clienti). Un incantesimo che lascia presagire un inquietante presupposto: e se la ragazza morta (senza casa, né genitori, oltretutto) fosse solo un’allucinazione della protagonista? Protagonista che vorrebbe eliminare la sua purezza per essere donna (dorme ancora con l’orsetto, ma lo tiene tra le gambe; dorme completamente nuda; da ragazza pudica si trasforma improvvisamente in fanciulla vestita in modo disinibito). “La Samaritana” è il “Lolita” del Ventunesimo Secolo, un capolavoro di rara intensità che Kim Ki-Duk poteva non riuscire a superare.
E invece arrivò Ferro 3- La Casa Vuota” (2004) e fu amore. Storia d’amore tra due derelitti (lui senza casa, lei senza amore) , che cercano disperatamente una vita normale e felice, continuando ad entrare nelle case altrui, ma senza mai rubare nulla e autofotografandosi sotto i ritratti di famiglia. Arrivano, vivono, scappano. E ricominciano il ciclo. Tutto sarebbe pefetto se non ci fosse il marito burbero, armato di Ferro 3 (strumento legato alla borghesia e alla noia coniugale, ma ancora d’allusione fallica) , che partecipa anche nella ricongiunzione dei due amanti, in quella che ritengo la scena di bacio più bella della storia del cinema. Si crea un grottesco corpo a tre teste, che dà idea sia di pace che senso di soffocamento. E alla fine, vita e morte, amore e odio si confondono, dietro gli eterei sorrisi di lei e le movenze ectoplasmatiche di lui. Il marito torna al suo lavoro borghese, e tutto si sistema. O quasi. Una tragicommedia dove sono i silenzi a dominare, dove tutto è volutamente è ripetitivo (la canzone della colonna sonora, i volantini, i gesti) , ma dove tutto si srotola nel cammino d’espiazione finale. Ed è capolavoro. Tra i migliori film mai realizzati.
Kim Ki-Duk ha un potenziale d’immagine veramente impressionante, che si riconferma nella sua famigerata trilogia L’Arco” (2005)/ “Time”(2006)/ “Soffio” (2007), film incredibili e splendidi, ma incomprensibilmente stroncati dalla critica. Sono tre passi essenziali del cinema di Kim Ki-Duk e ne comprimono la poetica, raggiungendo momenti di bellezza inarrivabili (la scena de “L’Arco”, dove la bellissima protagonista diciassettenne di “La Samaritana” si addormenta in un abito da sposa, mentre una freccia viene sparata dritta tra le sue gambe), o sperimentando nuovi mezzi per sottolineare l’inquietudine (dopo i silenzi insistiti di “Ferro 3”, in “Time” prevale il dialogo, spesso inutile, a soffocare il terrore del silenzio assoluto), raggiungendo vette Pirandelliane (la protagonista di “Time” che piange indossando una maschera di sé stessa, sorridente e prima dell’operazione chirurgica), o con l’autocitazione rielaborata (le stagioni come ciclo vitale, in “Soffio”.)
Delle sceneggiature scritte per altri, si salva solo la prova di Jang Hoon, “Rough Cut” (2008), un film di cinema sul cinema, che si rivela incredibilmente affascinante e goduriamente “scomposto”, raggiungendo una vetta di bellezza nella scena della lotta nel fango. Mentre è sicuramente poco riuscito, il brutto Beautiful”(2008) dell’anonimo Jae-Hong Jeon, che rovina una buona sceneggiatura per realizzare un film innocuo dal punto di vista visivo e che difetta di una recitazione decisamente poco curata.
L’unico vero passo falso del regista coreano resta Dream” (2008), oggetto misterioso, frutto di una coproduzione nippocoreana. Un film bello, ma che non raggiunge quasi mai le vette tipiche del suo cinema, preferendo soffermarsi su una poesia quasi forzata e molto meno affascinante. Le premesse per il capolavoro ci sono e ,anche l’idea di far recitare l’attrice protagonista in coreano e l’attore in giapponese, per sottolineare l’incomunicabilità tra i due sessi, è geniale; ma ne esce un film che poco aggiunge alla sua filmografia. Il finale, splendido e puramente filosofico, eleva il film ad un gradino più alto, ma “Dream” resta “solo” un buon film.
E poi, Arirang” (2011), il suo attesissimo ritorno. Un documentario sperimentale che diventa, con grazia, un suicidio artistico. La possibilità di scavarsi dentro e di riflettere su ciò che si è compiuto. Un film girato in digitale e senza soldi, nato da una depressione, che vede nella creazione di una pistola (sul cui manico viene marchiato il nome del regista), l’occasione per dimenticare e sparare dritto sul passato, per reinventarsi e riscoprirsi. Kim Ki-Duk si autocelebra e si annulla, mostrandosi non come una star, ma come un quasi-barbone che vive in uno scantinato, circondato da spazzatura e da locandine dei suoi film. Un disagio mai così sottolineato con completezza e precisione, e che è stato premiato a Cannes (nonostante i diverbi tra il regista e il Festival) con il premio “Un Certain Régard”). Ed è ancora capolavoro. Il nuovo capolavoro di uno dei registi più visionari e geniali.
ARIRANG
Uscito dalla depressione, Kim Ki-Duk decide di raccontare cos’ha fatto in questi tre anni d’assenza. Si filma con una telecamera, si confessa e cerca di autoesorcizzarsi. Intimismo delirante che sfreccia nel vento, la confessione del dio cinemaografico si divide tra l’assoluta calma e pazienza, come una confessione quasi religiosa, e la distruzione, il delirio e l’isteria. Kim Ki-Duk, dopo tre anni, parla di sé stesso in un film su sé stesso, ma soprattutto sul suo cinema. Questo non è un film per piacere, non è un film per il pubblico. “Arirang” giustamente, lo snobba. è uno sfogo, una confessione per autoesorcizzarsi, girata con una videocamera digitale, senza soldi né attori. Kim Ki-Duk è allo sfascio, solo, ma finalmente libero di dire quello che vuole.

Dalla sua idea sulla morte, agli insulti rivolti a chi gli ha voltato le spalle. Kim Ki-duk si sfoga e, ovviamente, lo fa a suo modo: cantando l’arirang, canto tradizionale coreano, mentre la telecamera riprende le locandine, i premi vinti e i copioni. Kim Ki-Duk si sdoppia (ricordiamo che il doppio, la scomposizione, è presente quasi sempre in ogni suo film), a specchio, e diventa quasi un caleidoscopio: lui parla a sé stesso, l’ombra parla a lui , ma al contempo un quarto Kim Ki-Duk guarda divertito il girato ai limiti della disperazione.

Documentario o montatura? Kim Ki-Duk non si sforza di nascondere le cose: “Può darsi che prima stessi recitando, che non sono arrivato davvero a piangere.” Ma poi, la caduta verso gli inferi. Kim Ki-Duk urla, disperato, e si costruisce una pistola, pronto a mietere vittime. Le vittime sono i set dove ha girato i suoi film. Li uccide tutti, a sangue freddo. La strada di “Soffio”, il vicolo dei love hotel di “La Samaritana”, freddati completamente. E poi, il suicidio artistico. Ancora l’arirang. Il ciclo continuo della vita ancora una volta incarnato alla perfezione: Non sono più le stagioni le componenti del ciclo vitale, ma le emozioni. La ciclicità è alla base del cinema di Kim ed emerge anche nei movimenti quotidiani sempre ripetuti (il caffè, ininterrottamente preparato, lui che dà da mangiare al gatto….). Quando sei solo, la vita è pura e mera alienazione. Lo struggente ritratto di uno dei più grandi artisti del ventunesimo secolo, il cui obiettivo era semplicemente: “Realizzare dei film ingenui, innocenti, imperfetti.”

Il devastante e fottutissimo capolavoro di quest’anno.
PS: Ho pianto.

Guardare un suo film vi cambierà profondamente.
“Difficile dire se la vita sia la realtà o un lungo, eterno, sogno” (Ferro 3)