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Revolution Is My Boyfriend: Due Chiacchere Con Bruce LaBruce

11 Set

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Ho dovuto intervistare Bruce LaBruce, pioniere del post-porno, soprattutto a tematica omosessuale, per un progetto universitario. Ho deciso di condividerla con voi.

Sono le 18.45 e Bruce LaBruce è in ritardo per la nostra videointervista via Skype, della serie: più svuncio di così non si può, ma ci si accontenta. Si palesa da solo, come un’apparizione, confortandomi: “I’m ready!” dice. Si presenta con le occhiaie, abbastanza tramortito e con un enorme tazza di caffé. Mi dice: “Scusami, mi sono svegliato tardi.”Perdonato. Skype che tenta di dividerci più volte, negando il suo microfono e bloccandosi ripetutamente. Tuttavia, la mia pazienza e il suo entusiasmo hanno contribuito a terminare l’intervista nel miglior modo possibile.

Io: Come prima domanda, volevo semplicemente chiederle di dirci che cosa fa di preciso, quali sono i suoi temi ricorrenti e come lavora ai suoi progetti.

Bruce: Sono un regista di film underground/alternativi/d’avanguardia. I miei progetti variano, dipende soprattutto dal budgt. Alcuni non ne hanno proprio, altri, invece, sono low-budget. Recentemente mi è stato finanziato un film con un budget che sfiora il milione di dollari, ad esempio. Ci ho messo tre anni per realizzarlo: tra lo scrivere la sceneggiatura e trovare un produttore. A volte, quindi, i tempi di lavorazione sono abbastanza lunghi. Se il tempo di lavorazione è troppo lungo, spesso opto per il low-budget. “L.A. Zombie” , ad esempio, è stato un progetto molto libero: l’ho realizzato con meno di 100.000 dollari di budget e senza nessuna sceneggiatura: giusto un soggetto di tre pagine.

Io: E ora sta lavorando a qualche nuovo progetto?

Bruce: Sì, il mio prossimo film si chiamerà “Gerontophilia” . La storia ruota attorno a questo giovane che prova attrazione sessuale per gli uomini anziani. Lo girerò tra Settembre e Ottobre, quindi, sarà pronto per il prossimo anno.Io:

Soprattutto nei suoi ultimi lavori è presente il binomio sesso e violenza, spesso di deriva zombie. Come mai?

Bruce: Bella domanda! Credo sia dovuto dal fatto che sono stato cresciuto in campagna, in una fattoria. Quindi, da piccolo, ho assistito regolarmente all’uccisione di maiali nell’ammazzatoio. Credo che sia questa l’influenza. Riguardo al sesso, invece, non so proprio come mai ci sia finito dentro! Ahahahahahah! Diciamo che cerco di spiegare come anche la violenza più aberrante possa essere un ottimo mezzo d’intrattenimento. Spesso esagero, vado oltre, ma il low-budget mi permette grande libertà e io la sfrutto.

Io: Crede che, nonostante lei sia considerato un artista a tutti gli effetti, c’è ancora chi ritiene i suoi film mera pornografia?Bruce: Alcuni sì, lo credono ancora. Ma si sa, certa gente non sa vedere oltre l’immaginario pornografico, quindi li catalogano come porno. Certo, i miei film sono molto pornografici, ma sono anche dei meta-porno: riflettono sui meccanismi del genere, come la cultura consuma e vede i porno e riflettono anche il mio modo ambivalente di approcciarmici.

Io: E qual è il suo punto di vista sull’industria del porno mainstream, del post-porno o della pornografia su internet?

Bruce: In passato ho anche lavorato con compagnie cinematografiche professionali, quindi sono entrato in contatto anche con l’ “industria del porno” più convenzionale, che è completamente un mondo diverso, rispetto alla creazione di porno artistico, quello indipendente e più alternativo. Se dovessi fare un porno classico, lo farei per distruggere le convenzioni dello stile di quel tipo di pornografia, cercando di fare qualcosa di più interessante. Se, invece, si tratta di pornografia artistica, allora c’è più liberta d’espressione: puoi spingerti oltre i limiti dell’estetica e non devi nemmeno preoccuparti di renderlo commerciale. Puoi usare, quindi, tipi diversi di bellezza: diversi corpi, diversi ideali. è tutto più stimolante.

Io: Si sente un’icona gay?

Bruce: Credo di sì. Più che altro, mi sento più come un’anti icona gay, o un gay anti-icone.

Io: So che lei ha un’ampia schiera di fans anche tra il pubblico maschile eterosessuale e il pubblico femminile. Crede che, pur concentrandosi sull’omosessualità maschile, i suoi lavori siano indirizzati anche ad un pubblico più vasto?

Bruce: Sì, questo è un obiettivo che mi tocca nel profondo: Credo che l’idea di “cultura gay” e di “ghetto omosessuale” siano un limite alla creatività di una persona. Da artista, preferisco definitvamente parlare di argomenti più universali e vicini a tutti. Penso che chiunque lavori nel campo cinematografico voglia farlo, attraverso il suo modo personale di vedere il cinema.

Io: Preferisce dare più peso all’esplicita violenza o carnalità dell’immagine, oppure al tema portante di un suo film? A cosa dà più peso?

Bruce: Beh, dipende. Come ho già detto, “L.A. Zombie” è stato, per me, un film totalmente lbero: nessuna sceneggiatura, nessun limite, nessuno che mi dicesse “Guarda, stai esagerando”…ma forse di quel qualcuno ne avrei avuto bisogno! Ahhahahahah!Il nuovo film, invece, avendo un budget maggiore, ha più rischi: devo renderlo un filino più commerciale del mio standard, in modo da poter guadagnare abbastanza per progetti più liberi. Infatti, sarà un film dove il sesso non sarà per niente esplicito.

Io: Punterà, quindi, sull’aspetto più emotivo?

Bruce: Diciamo di sì. Sicuramente sarà più narrativo: i personaggi saranno molto più approfonditi e avrà una storia dalla struttura molto complessa. Da quel punto di vista, ecco, è un film molto convenzionale. Anche “Otto, Or Up With Dead People” aveva una trama, ma non aveva il timore di osare ed essere esplicito. Questo perché è stato una produzione indipendente, con un budget di circa 350.000 dollari. Ero, quindi, molto libero. Ma è difficilissimo trovare un pubblico per film di questo genere. Il sesso esplicito e -forse anche la politica radicale degli stessi personaggi- ne hanno reso un film difficilmente “vendibile”.

Io: “Otto” e “LA Zombie” sono in qualche modo collegati..

.Bruce: “Sì, “Otto” e “LA Zombie” hanno lo stesso tema, a sono molto diversi tra loro: esprimono due estremi del mio lavoro.

Io: Qual è il film a cui si sente più legato, scegliendone uno dalla sua filmografia?

Bruce: Ecco, sono molto legato a “Super 81/2” , perché è stato il più difficile e il più confuso da girare. Era il mio secondo film, mi ci sono voluti due anni per realizzarlo e ho dovuto sfruttare solo il mio denaro. Finirlo mi ha quasi ucciso. Quindi, simbolicamente, è una metafora filmica della difficoltà di essere un regista.

Io: Quindi lo ricorda più per la vita che ha avuto, che per il suo contenuto?

Bruce: Decisamente. Tecnicamente è stato un disastro. Mi piace ancora molto il suo contenuto, ma lo sento più vicino per la difficoltà che c’era nell’errore e il caos.

Io: E di che parlava?

Bruce: Difficile spiegarlo: è un meta-film. Molti dei miei film sono film dentro film. “Otto” è una sorta di remake di “Super 81/2” , quindi è molto introverso. Parla della mia identità e della mia crisi sul mio essere un regista pornografico, parla di come sia difficile fare arte con il sesso, su quanto sia complicato realizzare scene di sesso esplicito…

Io: Crede che, da allora, lei sia riuscito a conquistare una fama più artistica?

Bruce: Dopo il mio primo film, “No Skin Off My Ass”, dove rappresentavo per la prima volta amplessi espliciti sullo schermo, sono stato definito da molti “pornografico”. Ho realizzato quanto sia ipocrita la gente riguardo alla pornografia: quasi tutti ne fanno uso e lo adorano, ma sono sempre pronti a giudicare la gente che ci lavora o ci recita. Questo binomio è alla base di tutti i miei lavori. Molti mi giudicano come il pioniere del post-porno e, in qualche modo, credo di averlo inventato io stesso. è stato, quindi, anche questo a farmi guadagnare il rispetto di molte persone, che apprezzano i miei lavori anche per il loro contenuto. Anche se questo nasconde anche lati negativi: ora sento molta pressione. Tutti si aspettano da me chissà quali invenzioni, chissà quali territori nuovi da esplorare…

Io: Ho letto sul suo profilo di facebook che sta lavorando ad un progetto teatrale chiamato “Mommy Complex”, può spiegarci di che si tratta? 

Bruce: Veramente, si tratta di un progetto che rientra in un progetto ancora più grande: “The Bad Breast” : un melodramma femminile basato sul lavoro post-freudiano della teorica sulla psicanalisi Melanie Klein. Faccio anche molto teatro, soprattutto a Berlino. Lavoro molto con Susanne Saschsse, l’attrice che è anche apparsa in “The Raspberry Reich” “Otto”. 

Io: Anche le sue rappresentazioni teatrali toccano temi di caratteri sessuali?

Bruce: Sì, ma in un modo molto più teorico. D’altronde, è difficile rappresentare il porno a teatro! Si tratta di lavori basati sulla teoria di Melanie Klein, riguardo alla relazione tra il bambino e il seno della madre, come questo influenza lo sviluppo del bambino. Si tratta di una teoria femminista, perché distrugge totalmente l’idea fallocentrica delle teorie di Freud.

Io: Si sta, quindi, concentrando anche sul mondo femminile?

Bruce: Sì, e soprattutto nei miei lavori teatrali, anche se, l’ultimo mio progetto, una produzione di Arnold Schoenberg, chiamata “Pierrot Lunaire”, un’opera d’avanguardia ha come protagoniste delle donne che decidono di cambiare sesso.

Io: E ha mai pensato di realizzare dei film a tematica lesbo?
Bruce: Ne ho già fatto uno! Si chiama “Give Peace Ass A Chance” ed è un cortometraggio. Questo corto rientra in una mia personale trilogia sulla sessualità femminile: “Give Peace Ass A Chance”, “The Bad Breast” Weekend In Alphaville”. Quest’ultimo l’ho realizzato l’anno scorso, come parte di un progetto artistico che ho fatto a Regina, Saskatchewan, in Canada.

Io: Di che tipo di progetto si tratta?

Bruce: Era un omaggio a Godard: un film realizzato come parte di una videoinstallazione. Il soggetto riguardava una donna che, con la sua auto, si scontra contro una renna. In seguito all’incidente, la protagonista invoca degli spiriti aborigeni. Era tutto così astratto. L’ho realizzato con gli artisti della First Nation e con un mio amico ballerino. Sai, ho anche lavorato come istruttore di danza da giovane! Ho scritto io stesso le coreografie per i miei lavori teatrali e anche per “Otto”. Mi piace molto la danza come mezzo d’espressione.

Io: Lei è molto eclettico. Ho letto che è anche fotografo…Bruce: Sì, in Italia è stato pubblicato anche un mio libro di scatti fotografici. Fotografia artistica e pornografica.

Io: E che ne pensa della pornografia su internet? Bruce: Diciamo che io mi pongo a metà tra l’industria del porno più convenzionale e quella più libera. Tuttavia, pur considerando poco interessante molta della pornografia su internet, ne ammiro molto il lato democratico. Mi piace questo spirito del “porno fai-da-te”: potrebbe persino cambiare totalmente il modo di realizzare film. Eppure, penso che se il porno sia tanto ricco di sfaccettature sia proprio per la presenza di questi due estremi all’apparenza inconciliabili: il porno mainstream e quello artistico. Devono coesistere.

Io: Il suo lavoro mi ricorda molto la corrente soft-porno giapponese dei pinku-eiga, una corrente dove i registi giapponesi sfruttavano il porno per raccontare temi molto importanti quali l’incomunicabilità o la politica, o per realizzare lavori d’alto valore artistico. Li conosce? E se sì, li apprezza?

Bruce: Sì, e mi piacciono molto. Mi hanno anche influenzato per una sceneggiatura che vorrei realizzare. Si chiama “School Girl In A Cage”.

Io: Ahahhah! Un titolo decisamente da pinku-eiga anni ’70! 

Bruce: “Sì, decisamente! Ahhahha! Comunque un film giapponese che mi ha molto colpito, ma di cui non ricordo né titolo né regista, parlava di questa ragazzina minorenne che si offre di fare sesso pur di diventare una star televisiva. Terminava tragicamente con il suo suicidio.”

Io: Non credo di averlo mai visto, anche se ne ho visti tanti! Ahhahahh! Conosce Hisayasu Sato? Credo che abbia realizzato uno dei migliori film a tematica gay,“Muscle”. Credo che, insieme al suo “Otto”, sia il film che meglio rappresenta l’omosessualità maschile…

Bruce: “Grazie, ne sono onorato! Il film credo di non conoscerlo, ma sicuramente me lo procurerò.”

Io: Questa era l’ultima domanda, la ringrazio ancora per la sua disponibilità, è stato gentilissimo…Bruce: “YAY!”

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FILMOGRAFIA:

1987- Boy, Girl
1987- I Know What It’s Like To Be Dead
1988- Home Movies
1992- A Case For The Closet
1992- The Post- Queer Tour
1992- Slam!
1993- No Skin Off My Ass
1994- Super 81/2
1996- Hustler White
1999- Skin Gang
2000- Come As You Are
2004- Raspberry Reich (Revolution Is My Boyfriend)
2007- Give Piece Of Ass A Chance
2008- Otto; Or Up With Dead People
2010- L.A. Zombie
2010- The Bad Breast or The Strange Case Of Thelda Lange
2010- Weekend In Alphaville
2011- Fucking Different XXX

“Irreversible” di Gaspar Noé

16 Apr

“Il tempo Distrugge Ogni Cosa”, questa la chiave del controverso secondo lungometraggio di Gaspar Noé (dopo “Seul Contre Tous” del 1998 e “Enter The Void” del 2009, di cui ho già parlato qui), un film accolto in modo indegno da una critica con la puzza sotto il naso e dal pubblico che si crogiola nelle acide considerazione dei critici pronti a masturbarsi su qualsiasi cosa che duri quattro ore e mezzo e raggiunga l’emblema dell’immobilismo.
Indegno, perchè è troppo facile parlar male di un film che, invece, andrebbe rivalutato dal principio. Perchè sono ben pochi i film che, nella cinematografia occidentale contemporanea, sanno essere così “oltre”, così devastanti, purificanti e carnali come “Irreversible“, un film capace di scuoterti e non abbandonarti più, per giorni interi.
Indegno è criticare un film perchè fa comodo, senza averlo capito (le recensioni negative che si trovano in giro, infatti, non si esplicano quasi mai, puntando con faciloneria a elementi indispensabili per la creazione del film stesso), solo perchè nel cast figura la nostrana femme fatale Monica Bellucci, tra l’altro in una performance invidiabile, sicuramente la migliore della sua carriera.
Quando la donna ideale degli uomini eterosessuali italiani, infatti, si spoglia dei personaggi che le vengono cuciti addosso solo per il suo aspetto fisico (la burina, la romana sboccata, il puttanone), riesce persino a recitare in modo eccellente. Accade qui, in un film che finalmente riesce a darle grosse libertà espressive, sconvolgendola. Apice, e motivo di fischi, è la scena in cui la protagonista femminile incontra il proprio infausto destino in un sottopassaggio parigino dalle pareti infuocate di rosso morte.

12 minuti di camera fissa, rasoterra, di una Bellucci come non la si è mai vista prima: rantola sotto le luci al neon intermittendi, si inarca, urla: è incredibilmente pacata, vulnerabile, struggente. Pronta ad abbandonare la sua sensualità, si dipinge di fango.
12 minuti di stupro, tra i più agghiaccianti della storia del cinema, se non il più. Noè non ha paura di farcelo vedere, destando il disgusto, discussioni di buon senso e altre cose che sarebbero la gola dei conservatori.
Perchè filmare quest’indecenza? Perchè Noè vuole inchiodare lo spettatore, e lo fa con incredibile facilità: il suo cinismo risiede nel prendere una delle donne considerata tra le più belle al mondo e di spogliarla per distruggere chi vede. Non c’è nulla di eccitante in questo squarcio di inferno, che è parodia stessa della vita: un uomo che scende in un sottopassaggio, resta a guardare per due secondi e poi se ne va.

Allo spettatore non è concesso: deve guardare tutto, da vicino, e non può intervenire. Lo deve subire perchè ha voluto, per mero voyeurismo, deridere, partecipando alla sofferenza di un uomo (Vincent Cassel) a cui hanno stuprato e ucciso la fidanzata. Perchè l’essere umano gode nel vedere la sofferenza altrui e cerca di non convincersene, ma è così.

“Il Tempo Distrugge Tutto”, dicevamo. E qui arriva l’idea dalla narrazione al contrario. Criticatissima perchè pare copiata da un filmaccio come “Memento” (2000) di Cristopher Nolan, come se neanche fosse il primo ad adottare questa scelta “innovativa” (dove lo lasciamo “Peppermint Candy” di Lee Chang-Dong, uscito nel 1998?).
Se nel film di Nolan il ritorno al passato è solo un pretesto per ricostruire un’identità di ricordi e per vezzo stilistico e in “Peppermint Candy” è una scelta per descrivere cosa può spingere un uomo al suicidio, in “Irreversible” la narrazione inversa è la base dello stesso film: Il tempo distrugge tutto.

Un film di vendetta non può che partire al contrario, perchè la vendetta stessa cerca di rimediare, inutilmente, a qualcosa che è successo nel passato. Tenta di strappare dalla morte i propri cari e i propri affetti, pur essendo consci di quanto sia inutile. Ed è beffardo il tentativo di sottolineare la vanità della vendetta per Noé: l’uomo che viene ucciso dal migliore amico di Cassel non è lo stupratore (e non è uno spoiler, perchè lo si scopre quasi subito).

Un film di osservazione pura, “Irreversible”, che è sublime nella sua capacità di sfruttare la narrazione inversa (pericolosissima, invero, per un vengeance-movie, visto che l’azione normalmente si concentrerebbe nel finale, mentre all’inverso, è concentrata nella prima mezz’ora, con l’aggravante di sapere già tutto), per inchiodare alla poltrona: con una semplicità solo apparente, infatti, Noè nasconde simbolismi, indizi (fate attenzione ai dialoghi tra i tre protagonisti durante il viaggio in metro, la Bellucci che si toglie la mano del fidanzato dalla bocca, proprio come farà con lo stupratore, il desiderio scherzoso di Cassel di sodomizzare la fidanzata, che diventa orribile presagio, il libro che legge la Bellucci sulla potenza dei sogni premonitori e sul tempo che è già scritto), distruggendo ulteriormente lo spettatore.

E Noè, senza pietà, porta lo spettatore in un finale di straordinaria bellezza, dove prima una bizzarra citazione di “2001: Odissea Nello Spazio” di Kubrick (perchè è un film che inizia con la nascita dell’uomo, mentre “Irreversible” è l’esatto contrario) e poi un sogno ad occhi aperti, di massacro dell’innocenza e di apocalisse del sogno borghese, portano ad un incubo di allucinazioni ed epilessia. Il tempo ha distrutto tutto: ha distrutto i suoi protagonisti, lo spettatore e il film stesso.

“Irreversible” è un film straordinario, un autentico capolavoro da riscoprire e valutare con più coscienza. Sicuramente, uno dei più coraggiosi che possiate trovare.

Muscle (Hisayasu Sato)

1 Apr

Hisayasu Sato è un regista strano, molto strano: è un uomo dotato di una profondissima sensibilità, deviato da traumi infantili e sessuali su cui è meglio non divagare, è una personalità insolita all’interno del cinema giapponese. é un nome che più volte si tira fuori per definire quel sottogenere del cinema asiatico che prende il nome di “Cinema estremo”: in realtà, il cinema di Sato è tutto fuorché tette e sangue.

Hisayasu Sato è tutto fuorché un pervertito. Regista spesso sfortunato, poco considerato e diventato celebre solo con il caposaldo “Naked Blood” (1995), film splatter filosofico che riflette sull’impossibilità della cancellazione del dolore nell’essere umano, è in realtà un artista con alle spalle quasi un centinaio di film. Personaggio enigmatico, ambiguo, eppure capace di grandi cose. E, tra queste grandi cose, sicuramente c’è “Muscle“: il suo capolavoro, un film splendido e perfetto in ogni sua componente, che ancora una volta sfrutta il genere del “pinku-eiga” (il cinema softcore nipponico a basso budget) per avere la massima libertà d’espressione, sia visiva che narrativa.

Ma “Muscle” è, prima di tutto, una potentissima storia d’amore e cinema. Film breve ed intenso, lento, dolorosissimo e, a tratti, persino estenuante, che riflette, con una potenza inarrivabile sia sul rapporto di coppia, che sul rapporto con il cinema. Il cinema è visto come uno strumento di altissima capacità, di massima comunicazione e di interazione (“Se non ti piace quel che vedi, allora non pagare”), o come unione degli affetti interpersonali (il protagonista che vuole vedere “Salò O Le 120 Giornate Di Sodoma” per riallacciarsi ad una persona cara, che gli aveva parlato del film stesso), un senso metafilmico che si riallaccia perfettamente alla visione distorta e sconcertante dell’amore, secondo l’autore asiatico: in una società sull’orlo del collasso, soffocata dal desiderio del possesso e della perversione, solo i puri di cuore credono ancora nell’amore. E i puri di cuore sono destinati a soffrire.

Per questo anche l’azione, che è il letmotiv del film (ritrovare il proprio amante per restituirgli il braccio amputato), sotto la crosta del grottesco e del disturbante, nasconde una metafora splendida sull’amore: per amare bisogna raccogliere i pezzi che hanno portato alla rottura del rapporto e rimetterli insieme. Per amare bisogna dimenticare il corpo, accecandosi, e iniziare a sessualizzare l’anima.

I personaggi di Sato sono sempre persone vuote, che cercano disperatamente qualcosa che possa riempirle: sono automi senza volto, disperate cornici del nulla, vaganti spaventapasseri in mezzo a soffocanti vie metropolitane. I personaggi di Sato cercano nel sesso l’unica via possibile verso la catarsi, ma non la trovano quasi mai: la speranza risiede in un non-luogo, in un limbo dove finalmente potersi raccontare.

E qui entra in gioco il lunghissimo, straordinario finale, che pare anticipare di oltre dieci anni l'”Eyes Wide Shut” kubrickiano: un dolente e morbosissimo festino sessuale che si trasforma in farsa teatrale, dove tutti i nodi vengono al pettine, e dove solo un’azione estrema può ricongiungere due persone che si amano, ma che non vogliono rendersene conto.

è lo sguardo, criptico, disilluso e vertiginoso di Hisayasu Sato: un pugno in pieno viso che si concretizza in un cammino che sprofonda negli inferi, nelle viscere, subliminando ciò che è inconscio in tutti noi. è un viaggio che vive di morte, arte, sesso, amore, vita. E ciò che può essere considerato estremo, impossibile  o violento, non è altro che la nostra vita.

Per amare, si deve ballare, ad occhi chiusi, un tango sfrenato.

Barren Illusion (Kiyoshi Kurosawa)

23 Mar

Barren Illusion” di Kiyoshi Kurosawa è il miracolo cinematografico. Una rivoluzione distruttiva che sradica tutto il cinema pseudo-adrenalinico e cervellotico. Ritmo ascettico, lentissimo, ma mai stancante, con un’implosione assoluta anche nell’ambito puramente narrativo. è un film che non racconta assolutamente nulla, eppure resta, colpendo al cuore come un coltello affilato.

Lavora per concetti, suggestioni (l’uomo che scompare e ricompare, scompare e ricompare), immagini pure e disperate (il suicidio ingiustificato della donna), è un’altra apocalittica visione sull’incomunicabilità di Kiyoshi Kurosawa. Rarissimo esempio di cinema che rifiuta completamente il suo pubblico, distruggendolo anche con invisibili calci. è un film che ha solo una scena madre (il ritrovamento dello scheletro sulla spiaggia), pertanto non necessaria alla comprensione e che, non avendo alcun’invenzione di finzione, finisce semplicemente dove deve finire, senza trovare un finale ad effetto, con personaggi che paiono fantasmi e che, come tali, possono dissolversi da un momento all’altro.

Mai chiassoso, mai banale, è una fiaba urbana metafisica, perchè scava in profondità del corpo stesso, ma anche al di là del corpo. Oltre la vita. Oltre la morte. Capolavoro.

“Babel” di Alejandro Gonzales Inarritu

11 Feb

Un incantevole e crudele dramma che lega tre nazioni lontane nel mondo, un dramma che prende piede da un atto infantile di due ragazzini che vorrebbero diventare adulti. Ma il film parla proprio di questo: la ragazza giapponese che soffre del suo handicap e vede attorno sé la scoperta della sessualità dei suoi coetanei che vorrebbe provare, l’enfant terrible messicano che fa il duro, ma poi abbandona i suoi cari per scappare e i turisti americani che pensano prima a se stessi che a chi soffre davvero. è un film duro, ma anche vero, reale, sanguigno, che riesce a ridestare un minimo di speranza in un finale bellissimo e sofferto.

Ha degli attori straordinari (Rinko Kikuchi, Koji Yakusho, Gael Garcia Bernal, Adriana Barraza) e un pathos emotivo invidiabile, che trova il suo apice nella storia giapponese, sicuramente la più sofferta e bella: la bella e giovane Chieko viene ritratta nella sua disperata e triste scoperta della vita. Dura, fredda e disturbata, apre le gambe mostrando il suo segreto al mondo esterno, con estrema disinvoltura, ma con l’idea di raggiungere un vero rapporto umano. Quando si lascia sorprendere totalmente nuda dal padre, si raggiunge un apice di poesia estrema.

Un film che unisce e divide il mondo e i suoi esseri umani, tutti verso l’autodistruzione e la redenzione. Livido, a tratti isterico, altre volte silenziosissimo, con dei momenti registici straordinari (la scena nella discoteca di Tokyo, con l’audio forte della musica che, a scatti, sparisce, costringendoci alla sordità di Chieko).

Come un proiettile alla tempia, “Babel” resta dentro.

Riflessione sulla simbiosi tra regista e opera.

23 Gen

Mai mostrare qualcosa di incompiuto, o potresti modificarne il giudizio finale degli altri. è una regola non scritta di ogni artista, pseudo-artista o di chiunque crea qualcosa nella sua vita. Io non la rispetto mai ed è uno dei miei più grandi difetti.
Il fatto è che mi sento come un padre che vuole gridare al mondo che sua moglie è incinta, anche se sa che la donna potrebbe abortire. è lo stesso procedimento che ti porta ad amare anche la più grossa schifezza uscita dalle tue mani, il film, la foto o il quadro che neanche un bambino di due anni avrebbe fatto. E gli dai un titolo, perchè è come chiamare un figlio, un figlio buzzurro e maleducato, oppure soddisfacente e ad immagine e somiglianza di ciò che è il figlio modello.

é qui che però nascono le controversie. Una mia sceneggiatura (che forse mai tradurrò in immagini, perchè nella mia testa è proprio come vorrei) per un lungometraggio chiamato “Patriotism”, su quattro storie incrociate di persone distrutte dalla crisi economica che si lasciano andare nelle proprie ossessioni e nell’autodistruzione, è finita sotto gli occhi sbagliati al momento sbagliato.
“Tu mi fai paura” è ciò che mi è stato detto.

é stato in questo momento che è partita una mia riflessione sul compito del regista (ma che vale anche per lo scrittore, ma anche con il pittore, il musicista e tutti i campi artistici) nei confronti del suo pubblico.
Perchè un regista che realizza un film sulle perversioni viene catalogato come perverso? Perchè, al contrario, un regista di film per bambini diventa una persona sensibile e un buon padre di famiglia?
Perchè un regista diventa automaticamente il film che crea. E se il film è efficace, se raggiunge il suo obiettivo di colpire, tutto ciò che c’è attorno all’opera si materializza in un essere umano. è per questo che un capolavoro Pasoliniano come “Salò” sia reputato da molti uno schifo per via dei suoi temi piuttosto forti.

Il vero regista è quello che, film dopo film, cambia indole, sesso, sessualità, età, anima e corpo. Il cinema è un esempio di body art astratta. Lavora sul corpo del creatore, come su quello del fruitore, che crede in tutto ciò che vede. Perchè un regista che può essere il migliore e più puro uomo del mondo, se facesse un film pornografico, verrebbe catalogato come “pervertito”. Questo conferma come tutto ciò che il cinema ci propone, che pur è pura finzione, venga completamente accettato da chi vede.
Ed è compito del regista essere interessante ed essere se stesso, staccarsi carne, muscoli e ossa e trasformarli in cellulosa.

Ci sono registi capaci di rendere interessante e avvincente un silenzio tra due persone sedute in un bar (Apichatpong Weerasethakul, Pen -Ek Ratanaruang, Tsai Ming-Liang, Aleksandr Sokurov), rendendola coinvolgente come la più spettacolare scena d’azione, come al contrario, ci sono registi che rendono barbosissimo un film di un mostro che attacca una città. L’importante è diventare l’opera, che può essere orrida quanto vuoi. Ma devi accettarla. Perchè è tua. E quando la offri al pubblico, è come quando registri tuo figlio all’anagrafe. Ha i tuoi stessi occhi, anche quando si infila troppo spesso le dita nel naso.

“The Day He Arrives” di Hong Sang-Soo

6 Gen
The Day He Arrives”.Lui la stringe ubriaco, lei urla e piange. Lui le dice: “Vieni qui, amore mio.” Lei gli dice: “Mi farai impazzire”, poi le parti si invertono e i due vengono invasi dal fumo di sigaretta. é il tenebroso e cinico sguardo di Hong Sang-Soo sul rapporto di coppia, impossibile da comprendere e come solo lui riesce a descrivere, scavando a fondo fino all’inconscio, dove la gente deve gridare sempre contro chi piange, perchè non può permetterselo, perchè non c’è un cuore tra loro. è l’orrore dell’amore, dell’incomunicabilità e della distruzione psicologica.

Un cinema che si ripete in continuazione ma che, parlando di vita, non riesce a stancare: perchè i suoi personaggi sono reali dispersi che affogano nell’alcol, in sigarette perennemente accese e rapporti sessuali senza amore. è l’inferno del cinema, ma anche della vita, raccontato con una leggerezza introvabile in altri autori. Filmone. E splendido l’uso del bianco e nero.

“Guilty Of Romance”, di Sion Sono

23 Dic

“Il sesso ci salverà tutti.” 
Una detective è incaricata di risolvere il mistero attorno al corpo smembrato di una donna, le cui parti mancanti sono state sostiutiti da arti e testa di un manichino. Le indagini si intrecciano con la vicenda movimentata di una donna, Izumi, castigata moglie di un noto scrittore maniaco della pulizia e dell’ordine, la cui libido è ostacolata dal comportamento serio e restrittivo del marito. Stanca di essere una massaia, Izumi decide di lavorare in un supermercato prima, poi come modella e, infine, come prostituta, scoprendo gli angoli più bui e insani della sua anima.

Alla vicenda di Izumi si intreccia quella di Mitsuko, rispettabile professoressa di letteratura di giorno e prostituta di notte, con cui inizia un rapporto ambiguo e basato sulla scoperta e la piena coscienza di sé stessi…

Straordinario e complesso capolavoro. Uno dei più bei film dell’anno e uno degli apici di Sion Sono, che, comunque, ha un curriculum rispettabilissimo, disseminato di grandissimi film e altri, più che ottimi: morbosissimo e straordinario, con un controllo maniacale dei tempi e dell’azione, che lo rendono un film meravigliosamente costruito su un climax che, prima si avvicina piano piano, e poi strangola letteralmente lo spettatore, fino ad un finale che pare quasi tetro.

Un film completamente al femminile (e, forse, anche femminista), dove gli uomini, spesso inutili o di malafede, occupano una posizione marginale e di contorno, ma che riescono comunque a sconvolgere in negativo la vita delle protagoniste: un film che parla di libera espressione sessuale, ma che non si ferma qui, scavando sempre più a fondo, arrivando all’insoluto e il recondito, sconvolgendo di secondo in secondo, accarezandoti con una mano e evirandoti con l’altra.

Il suo più infernale e sepolcrale, persino più di “Suicide Club” o “Cold Fish“. Il declino dell’essere umano verso la follia e l’omicidio dell’anima. Travestito da thriller, è in realtà un degrado psicologico che neanche David Lynch, dove tutti i tasselli trovano il loro posto, ma senza darti mai una spiegazione da film hollywoodiano, preferendo lasciare il suo spettatore nella sporcizia che si è tirato addosso. E dimostra che il cinema giapponese non ha paura di mostrare l’immostrabile (c’è persino una scena alquanto spudorata che, se fosse stata girata da un regista occidentale, l’avrebbero fucilato in piazza: Izumi, ormai sull’orlo del delirio, urina con il sorriso stampato in viso, davanti a due bambini delle elementari che la guardano divertiti) .

Un film dove il cinismo si mescola allo sporco, dove il dramma diventa improvvisamente grottesco, e forse, anche horror. Dove non c’è redenzione per questi esseri umani, vittime di una società sbagliata e oscura.

Genio.

“I Am Keiko” di Sion Sono

18 Dic

Il geniale regista giapponese Sion Sono è più conosciuto per la moltitudine di capolavori cinematografici, spesso anarchici e fuori dagli schemi che ha realizzato. Conosciutissimo anche in Occidente, il regista ha sconvolto la sua Nazione con il controverso horror metafisico “Suicide Club” (2001), che leggeva il problema del suicidio in termini filosofici e legati alla solitudine e all’incomunicabilità, argomenti chiavi dell’arte asiatica, soprattutto cinematografica, ha però un curriculum di tutto rispetto, con film sperimentali e non realizzati sin dagli anni ’80.

Tra quelli meno conosciuti, c’è questo  “I Am Keiko“, del 1997. Un film spiazzante per il suo desiderio anti-narrativo e di anti-finzione (più volte il film si annuncia come film e non come storia, vantandosi di durare esattamente un’ora, un minuto e un secondo), che non ha una trama, ma ci vuole presentare un personaggio: l’apatica e solitaria Keiko, una cameriera di ventidue anni che, dopo la morte del padre, spento da un cancro allo stomaco, ha iniziato a prendere coscienza del passaggio del tempo e della sua potenza. Ossessionata dallo scorrere preciso e perfetto del tempo, la ragazza inizia a documentare la sua vita come se fosse governata da un cronometro, e la racconta attraverso lunghi monologhi meccanici, mostrandoci la sua solitudine, la sua chiusura con sé stessa e il mondo fuori, che cambia.
Keiko ci dice: “é notte. Qualcuno, ora, starà dormendo, altri piangeranno, altri rideranno, altri ancora staranno scopando. E io? Io sono sola in questa stanza, con le ossa di mio padre”.

Film dall’altissimo carattere sperimentale, che si snoda in lunghissime inquadrature fisse e una fotografia saturata e accesa, che spiazza e sconvolge con garbo, aprendosi su un’interminabile primo piano fisso della protagonista che, con lo sguardo compie lentissimamente il movimento delle lancette in un orologio, finchè non le scende una lacrima.

Più che un film, infatti, “I Am Keiko” è un videodiario che, sotto l’atmosfera ludica (seppur lenta e quasi zen), ci racconta la tristezza e la desolazione di una donna che, del tempo, ha fatto la sua unica ragione di vita, dimenticandosi i piaceri della quotidianeità e della curiosità. Troppo legata all’idea del ricordo, meccanicizza la vita umana, dandoci tantissimi spunti di riflessione.

Un film splendido, di cui si dovrebbe parlare per ore, eppure è difficile e lo sconsiglio ai meno preparati, persino a quei fan del regista, che si erano lasciati sedurre da quel caleidoscopio d’azione, violenza e sesso di quell’epopea biblica che è “Love Exposure” (2008). Per tutti gli altri, assolutamente da recuperare: la filosofia del regista è tutta qui. Solitudine, alienazione, rapporto conflittuale con la vita e crescita emotiva, con dei momenti che toccano vertici di cinema assoluti.

“Tra 3600 secondi esatti, le luci del cinema si riaccenderanno e molti di voi andranno a fumarsi una sigaretta, slegandovi completamente dal tempo, quando in realtà è il tempo stesso a legarvi a lui”.

“Enter The Void” di Gaspar Noé

26 Nov

Regista spesso al centro di spiazzamenti da parte del pubblico, Gaspar Noé non si demoralizza nel suo continuo ed impervio viaggio di ricerca del corpo, dell’anima e delle emozioni ed “Enter The Void” riesce ad esserne una sorta di testamento cinematografico. È, finalmente, un cinema completamente libero quello che il regista francese ci mostra in queste (quasi) tre ore di onirico viaggio. Un viaggio di suoni, colori, suggestioni ed empatia pura e cruda.

Un film-fiume dove Noé diluisce le sue più cupe ossessioni e le sue più feroci inquietudini, mettendo in luce dei personaggi-involucri che vogliono solo cercare un’identità, dopo terribili sconvolgimenti nel loro passato. Il catalizzatore di tutto questo male è Linda, la sorella del protagonista, bruttina, ma dotata di un invidiabile sex-appeal, destinata a scendere nella più cruda desolazione. È, infatti, possibile trovare un futuro in un mondo depravato e triste, che si ciba di sesso, droga ed anime? La capitale giapponese che Gaspar Noè dipinge di nuances al neon e battiti epilettici è l’ambiente più straniante (e straziante) sia mai stato impresso su schermo. È l’opprimente gioia di vivere apparente, che nasconde serpenti velenosissimi, avvicinandosi, in più punti ai mondi distruttivi di Lynch.


Che cos’è, infatti, “Enter The Void”, se non l’”Inland Empire” di Noé? Un film lentissimo e fluido, non onirico, perché è al di là persino del sogno. Un continuo susseguirsi lento ma violento di pianosequenza, che rimane impresso, soprattutto negli ultimi – straordinari- venti minuti, dove si scatena l’inferno dantesco di Noè: un continuo entrare ed uscire da corpi, strisciare su vetri e palazzi e giocare con gli sguardi, le luci e le ombre.

Il cinema di Noè non ha nulla di narrativo: è un cinema che racconta poco, pochissimo, ma che infligge ferite profondissime, da rimarginare e riaprire, sempre, durante la visione. E non è un caso, quindi, che sia un film che racconti poco, ma che non sia prolisso, nonostante l’eterna durata, perché il concetto passa solo quando si ferisce e si ipnotizza lo spettatore. Il mondo desolato e conturbante di Noè emerge solo quando non viene sbattuto in faccia a chi vede, ma quando emerge attraverso il dolore avvertito anche dagli oggetti: le lampade intermittenti ne sono la metafora incarnata. Ed è ancora più sporca l’intenzione, riuscendo ad essere velata ed elegantissima anche quando la telecamera riprende un amplesso sessuale all’interno dei due corpi in effusione.

“Enter The Void” è l’incantesimo ipnotizzatore fatto di fluttuanti movimenti di macchina che irrompono in cose e persone, che raggiungono alcune vette sublimi e indimenticabili (la cinepresa che entra nel foro da proiettile sul corpo di Thomas ed esce dall’ orecchio di Linda addormentata, il continuo entrare e uscire dai lavandini, la bellissima scena di Oscar e Linda sull’ottovolante che si va a schiantare come l’auto con i loro genitori), ma che non corrono mai il rischio dell’autocompiacimento.

Il cinema di Noé un cinema di carne, sangue, ossa. Un cinema sul corpo che violenta i suoi attori e lo spettatore, che lo ferisce e lo ricopre di carezze. Questo è il cinema libero, finalmente un cinema libero e divoratore, che vuole gridare senza scatenare compassione e che non vuole assolutamente farsi dimenticare Riuscendoci.