Tag Archives: salò o le 120 giornate di sodoma

Muscle (Hisayasu Sato)

1 Apr

Hisayasu Sato è un regista strano, molto strano: è un uomo dotato di una profondissima sensibilità, deviato da traumi infantili e sessuali su cui è meglio non divagare, è una personalità insolita all’interno del cinema giapponese. é un nome che più volte si tira fuori per definire quel sottogenere del cinema asiatico che prende il nome di “Cinema estremo”: in realtà, il cinema di Sato è tutto fuorché tette e sangue.

Hisayasu Sato è tutto fuorché un pervertito. Regista spesso sfortunato, poco considerato e diventato celebre solo con il caposaldo “Naked Blood” (1995), film splatter filosofico che riflette sull’impossibilità della cancellazione del dolore nell’essere umano, è in realtà un artista con alle spalle quasi un centinaio di film. Personaggio enigmatico, ambiguo, eppure capace di grandi cose. E, tra queste grandi cose, sicuramente c’è “Muscle“: il suo capolavoro, un film splendido e perfetto in ogni sua componente, che ancora una volta sfrutta il genere del “pinku-eiga” (il cinema softcore nipponico a basso budget) per avere la massima libertà d’espressione, sia visiva che narrativa.

Ma “Muscle” è, prima di tutto, una potentissima storia d’amore e cinema. Film breve ed intenso, lento, dolorosissimo e, a tratti, persino estenuante, che riflette, con una potenza inarrivabile sia sul rapporto di coppia, che sul rapporto con il cinema. Il cinema è visto come uno strumento di altissima capacità, di massima comunicazione e di interazione (“Se non ti piace quel che vedi, allora non pagare”), o come unione degli affetti interpersonali (il protagonista che vuole vedere “Salò O Le 120 Giornate Di Sodoma” per riallacciarsi ad una persona cara, che gli aveva parlato del film stesso), un senso metafilmico che si riallaccia perfettamente alla visione distorta e sconcertante dell’amore, secondo l’autore asiatico: in una società sull’orlo del collasso, soffocata dal desiderio del possesso e della perversione, solo i puri di cuore credono ancora nell’amore. E i puri di cuore sono destinati a soffrire.

Per questo anche l’azione, che è il letmotiv del film (ritrovare il proprio amante per restituirgli il braccio amputato), sotto la crosta del grottesco e del disturbante, nasconde una metafora splendida sull’amore: per amare bisogna raccogliere i pezzi che hanno portato alla rottura del rapporto e rimetterli insieme. Per amare bisogna dimenticare il corpo, accecandosi, e iniziare a sessualizzare l’anima.

I personaggi di Sato sono sempre persone vuote, che cercano disperatamente qualcosa che possa riempirle: sono automi senza volto, disperate cornici del nulla, vaganti spaventapasseri in mezzo a soffocanti vie metropolitane. I personaggi di Sato cercano nel sesso l’unica via possibile verso la catarsi, ma non la trovano quasi mai: la speranza risiede in un non-luogo, in un limbo dove finalmente potersi raccontare.

E qui entra in gioco il lunghissimo, straordinario finale, che pare anticipare di oltre dieci anni l'”Eyes Wide Shut” kubrickiano: un dolente e morbosissimo festino sessuale che si trasforma in farsa teatrale, dove tutti i nodi vengono al pettine, e dove solo un’azione estrema può ricongiungere due persone che si amano, ma che non vogliono rendersene conto.

è lo sguardo, criptico, disilluso e vertiginoso di Hisayasu Sato: un pugno in pieno viso che si concretizza in un cammino che sprofonda negli inferi, nelle viscere, subliminando ciò che è inconscio in tutti noi. è un viaggio che vive di morte, arte, sesso, amore, vita. E ciò che può essere considerato estremo, impossibile  o violento, non è altro che la nostra vita.

Per amare, si deve ballare, ad occhi chiusi, un tango sfrenato.

Riflessione sulla simbiosi tra regista e opera.

23 Gen

Mai mostrare qualcosa di incompiuto, o potresti modificarne il giudizio finale degli altri. è una regola non scritta di ogni artista, pseudo-artista o di chiunque crea qualcosa nella sua vita. Io non la rispetto mai ed è uno dei miei più grandi difetti.
Il fatto è che mi sento come un padre che vuole gridare al mondo che sua moglie è incinta, anche se sa che la donna potrebbe abortire. è lo stesso procedimento che ti porta ad amare anche la più grossa schifezza uscita dalle tue mani, il film, la foto o il quadro che neanche un bambino di due anni avrebbe fatto. E gli dai un titolo, perchè è come chiamare un figlio, un figlio buzzurro e maleducato, oppure soddisfacente e ad immagine e somiglianza di ciò che è il figlio modello.

é qui che però nascono le controversie. Una mia sceneggiatura (che forse mai tradurrò in immagini, perchè nella mia testa è proprio come vorrei) per un lungometraggio chiamato “Patriotism”, su quattro storie incrociate di persone distrutte dalla crisi economica che si lasciano andare nelle proprie ossessioni e nell’autodistruzione, è finita sotto gli occhi sbagliati al momento sbagliato.
“Tu mi fai paura” è ciò che mi è stato detto.

é stato in questo momento che è partita una mia riflessione sul compito del regista (ma che vale anche per lo scrittore, ma anche con il pittore, il musicista e tutti i campi artistici) nei confronti del suo pubblico.
Perchè un regista che realizza un film sulle perversioni viene catalogato come perverso? Perchè, al contrario, un regista di film per bambini diventa una persona sensibile e un buon padre di famiglia?
Perchè un regista diventa automaticamente il film che crea. E se il film è efficace, se raggiunge il suo obiettivo di colpire, tutto ciò che c’è attorno all’opera si materializza in un essere umano. è per questo che un capolavoro Pasoliniano come “Salò” sia reputato da molti uno schifo per via dei suoi temi piuttosto forti.

Il vero regista è quello che, film dopo film, cambia indole, sesso, sessualità, età, anima e corpo. Il cinema è un esempio di body art astratta. Lavora sul corpo del creatore, come su quello del fruitore, che crede in tutto ciò che vede. Perchè un regista che può essere il migliore e più puro uomo del mondo, se facesse un film pornografico, verrebbe catalogato come “pervertito”. Questo conferma come tutto ciò che il cinema ci propone, che pur è pura finzione, venga completamente accettato da chi vede.
Ed è compito del regista essere interessante ed essere se stesso, staccarsi carne, muscoli e ossa e trasformarli in cellulosa.

Ci sono registi capaci di rendere interessante e avvincente un silenzio tra due persone sedute in un bar (Apichatpong Weerasethakul, Pen -Ek Ratanaruang, Tsai Ming-Liang, Aleksandr Sokurov), rendendola coinvolgente come la più spettacolare scena d’azione, come al contrario, ci sono registi che rendono barbosissimo un film di un mostro che attacca una città. L’importante è diventare l’opera, che può essere orrida quanto vuoi. Ma devi accettarla. Perchè è tua. E quando la offri al pubblico, è come quando registri tuo figlio all’anagrafe. Ha i tuoi stessi occhi, anche quando si infila troppo spesso le dita nel naso.